Ho sentito usare più volte, in queste settimane, la metafora della guerra. Non solo per via dei numeri - quelli veri - che sono spaventosi, ma anche per quello che ne sarà di noi, soprattutto dei più poveri, quando ci risveglieremo con un Pil decapitato, se va bene, del 9,1%.
Ci sarà da ricostruire. E l'Italia non sarà più la stessa: nemmeno Milano, a dispetto di ciò che qualcuno immagina. Mettiamoci il cuore in pace: non riavvolgeremo nessun nastro. E se ci proveremo sarà un incubo.
Ma, a proposito di guerra, ripensando all'Italia post-bellica, nasce un pensiero semplice: alla fine della guerra, in mezzo alle macerie, ci furono persone che, messe per un momento da parte le divergenze ideologiche, cercarono di ricostruire insieme. I padri della Costituzione ne sono un esempio illuminante, ma non furono i soli.
Erano uomini perlopiù di grande cultura. Non tutti simpatici, non sempre concordi, ma cresciuti, pur nei disastri della storia, in un contesto in cui la cultura godeva di grande stima. I figli che potevano permettersi di studiare imparavano l'umiltà e la responsabilità che il loro privilegio comportava.
Al cuore di questa antropologia c'era l'Università. Con tutte le tragedie che l'Europa ha attraversato nei secoli, l'Università ha sempre svolto un ruolo fondamentale, più spesso come traino del sapere, talvolta anche come avversario (per esempio nel Rinascimento). Mi hanno colpito le iniziative, numerose e di notevole qualità, che molte università italiane hanno preso in queste settimane per non abbandonare i ragazzi a sé stessi. E mi sono sentito triste al pensiero della perdita di centralità di questa istituzione.
Io non voglio certo promuovere un «University reloaded», però è un fatto che adesso noi ricostruiremo il Paese con la gente che c'è, con questi politici i quali, mi si perdoni, tranne casi speciali non si presentano con la cultura dei don Sturzo, dei Togliatti, dei De Gasperi e, aggiungo, dei Giorgio Almirante. Preoccupa il fatto che, nei mesi del Covid-19, si sia innescato un processo antidemocratico, con un esautoramento di fatto del Parlamento, ma è anche vero che il Parlamento oggi, per mille ragioni, è quello che è. I migliori rappresentanti della nostra società solitamente si guardano bene dall'entrare in politica, e questo ci dice che c'è un problema culturale di dimensioni enormi, con il quale dovremo fare i conti a breve.
Il problema del ruolo dell'Università sta qui. E non è una questione di qualità. Esistono in Italia ottime università, con grandi insegnanti, che garantiscono un'eccellente formazione. Molti giovani laureati italiani ricevono offerte di lavoro da tutto il mondo per la serietà comprovata della loro preparazione.
Tuttavia sono soprattutto le facoltà scientifiche a far da traino a questa tendenza positiva, mentre quelle umanistiche arrancano. Qui sta il problema, che non è solo un problema di investimenti, ma innanzitutto di stima.
Mi spiego. Lo scopo di una facoltà scientifica è quello di produrre specialisti della materia. Una facoltà di Fisica deve produrre buoni fisici, e per essere buoni fisici occorre avere una buona intelligenza e studiare la Fisica. L'Università avrà ottenuto il 90% del suo scopo se dalle sue porte usciranno fisici preparati, il 100% se oltre a questo avrà saputo mantenere in loro l'umiltà e il desiderio di conoscenza.
Ma per una facoltà umanistica lo specialismo non è sufficiente. Una volta studiato Dante, o Kant, a memoria, una volta passata al setaccio tutta la filologia inerente, tutte le dispute, tutta la letteratura correlata (a patto che questo sia possibile), alla fine saremo, sì, autorizzati a parlare di Dante o di Kant, ma questo non garantirà affatto che si dica qualcosa di significativo su di loro, che se ne sia realmente compresa l'importanza.
Perché per comprendere l'importanza di Dante (questo è lo scopo reale dell'Università) non basta l'erudizione, è necessario un impegno umano, una capacità di esporsi, di mettersi in gioco: è necessario avere la coscienza e la stima di ciò che Dante sta dicendo ora, in questo mondo. E questo - ossia il passaggio dall'erudizione alla cultura - non è automatico, e non dipende soltanto dalla capacità e dall'intelligenza dei docenti. Conosco insegnanti formidabili, rei solo di non frequentare i media come fanno, viceversa, molti ciarlatani.
Come dicevo, è perciò soprattutto una questione di stima. La stima non è la pacca sulla spalla, non è dire «in gamba, quello», oppure «che brava persona»: la stima che abbiamo di qualcuno è data dalla vicinanza di quel qualcuno al centro dei nostri interessi reali. Se io ti metto ai margini dei miei interessi, posso anche dirti «bravo» e magari pensarlo, ma resterai ai margini, e quello che potrai fare sarà qualcosa di marginale. Ed è così che il mainstream culturale considera, oggi, l'Università.
Se le facoltà scientifiche (che tra l'altro hanno sempre prodotto grandi uomini di cultura) possono lavorare meglio, è per la forza-lavoro che producono. Resta il fatto che l'Università ha perso autorevolezza, non sa produrre più una classe dirigente, e questo si vede soprattutto sul versante umanistico, che non può modellarsi sugli stessi criteri di quello scientifico.
Secondo me, questo è l'effetto di una malattia vecchia, che tocca il sistema educativo italiano fin dalla sua nascita: un sistema povero di progettualità. Il sistema francese è progettato (con tutti i suoi limiti) per produrre cittadini francesi. Se un anno fa qualcuno avesse detto lo stesso dell'Italia si sarebbe sentito dare come minimo del fascista.
La mia speranza è che, all'uscita da questa terribile prova, diventiamo tutti più umili, e che la parola «Italia» torni a suonare bella e importante per tutti. Umiltà e stima sono i fattori culturali più importanti. Non dico che il destinatario debba esserne per forza l'Università, ma è un fatto che: a) l'Università - per quanto sottostimata - è oggi insostituibile, sia per i numeri di cui è fatta sia b) perché, a differenza di tutte le altre grandi istituzioni culturali, fa della conoscenza uno scopo e non soltanto un mezzo.
Questa ultima
gratuità del sapere è il bene più grande di una civiltà, ciò che le permettere di produrre un minimo di pace e di giustizia. C'è da augurarsi che la tragedia di questi mesi ci aiuti a rimettere questi valori al loro posto.
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