In un passato forse remoto, nell'approssimarsi della serata inaugurale della Scala, l'attenzione degli appassionati era concentrata soprattutto sugli interpreti vocali, sul direttore d'orchestra, sull'immancabile cornice mondana; alla messa in scena era chiesto di essere il più aderente passibile a quanto ideato dal compositore e dai librettisti. Il costume attuale, forte di uno spazio sempre più ampio guadagnato dal cosiddetto teatro di regia (negli articoli dedicati al Macbeth presentati nei giorni passati abbiamo citato quali registi e direttori d'orchestra abbiano riportato l'opera al rango che le compete), ha quasi rovesciato l'attenzione mediatica, mettendo spesso in ombra l'indiscusso primato del versante musicale su quello della messa in scena.
I registi oggi si interrogano doverosamente su come riproporre al pubblico classici che hanno, come il Macbeth di Verdi, più di centosettanta anni di vita.
Davide Livermore è giunto alla sua quarta inaugurazione consecutiva (onore che condivide con la famosa regista austriaca Margherita Wallmann, regina scaligera degli anni del boom economico, spesso svillaneggiata da neofiti scarsamente informati che la citano quasi fosse stata solo capace di far sventolare bandiere e non come una professionista di rango, educata alla scuola di Max Reinhardt).
Livermore si è domandato per quale società Verdi scriveva Macbeth («Una società che cercava diritti sociali e unità nazionale. Noi non andiamo a teatro per vedere una ricostruzione storica, ma per essere toccati nel vivo del nostro presente. Macbeth non è ancora l'opera che volge al cinema, bensì il melodramma esemplare che deve educare la società di metà Ottocento. È teatro politico, che risveglia la coscienza dell'uomo e la scuote con ritmi scanditi e velocità furiosa. È un'arringa che, scrutando i rapporti di forza, esorta i sudditi all'emancipazione»).
Per raggiungere i contemporanei Livermore opta per la «trasposizione», operazione ormai divenuta prassi comune, che il regista sente «dovuta». Sarà un mondo «distopico», «ispirato al film Inception di Christopher Nolan, un thriller fantascientifico del 2010, con le sue scatole cinesi di sogni condivisi, incubi comunicanti posti uno dentro l'altro».
Un mondo visto attraverso la mente del tiranno Macbeth, rappresentazione di «una società contemporanea, distorta a vantaggio del prodotto, attraverso una manipolazione degli spazi e della gravità, che si manifesta in skyline rovesciate e distorsioni prospettiche: effetti-incubo che ci aiutano a raccontare».
Le scene, opera del gruppo tricefalo che va sotto il nome di Giò Forma, si è ispirato a disegni e progetti razionalisti di Piero Portaluppi meritato omaggio ad un architetto di grande presenza nel volto martoriato della Milano moderna.
Un elemento molto importante promette essere il tentativo di sfruttare al meglio le proiezioni video.
Lasciamo la parola ancora a Livermore: «Noi facciamo una mediazione dal vivo tra il teatro e il video. Ci siamo sforzati di creare un linguaggio che invada la scena e la trasformi in un set cinematografico in tempo reale. Per noi è sempre buona la prima. Mi pare che i critici televisivi non si siano mai occupati di questa novità e della sua portata culturale».
In attesa di verificare in diretta quanto la distopia di Livermore&Co.
funzioni, in caso di piena realizzazione dei progetti registici, c'è forse il rischio di assistere ad uno spettacolo talmente coinvolgente da scuotere gli attuali sudditi? Da spingerli a pensare, forse a respingere, quanto di negativo il complesso politico-economico architetta quotidianamente? Non pensiamo che il pubblico dei pervenuti alla prima, abbia altre preoccupazioni diverse da quelle di essere visto o/e farsi vedere. Sarebbe già bello che ogni tanto ascoltasse.
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