Cultura e Spettacoli

Una magia che non è mai finita

di Tony Damascelli

Liverpool. Gli stivaletti. La giacca a quattro bottoni. Il capello gonfio, lungo ma non lunghissimo, tagliato a caschetto. L'inchino dopo ogni brano. Se vi chiedono chi erano i Beatles la risposta è semplice: gli anni Sessanta, tutti, un riassunto magnifico, da Elvis a Dylan, da Kennedy a Luther King, da Alì a Marlon Brando, un viaggio fantastico che ha attraversato il mondo, non limitandosi a una generazione ma aprendo un'epoca di stili, di moda, di musica, di posture, di arte. Quattro ragazzi che cantavano per i ragazzi, ecco la svolta per noi che di quegli anni eravamo spettatori partecipanti, da ingenui a folli, in principio con lo yeah yeah e Love Me Do, per concludere la camminata, sul passaggio pedonale di Abbey Road o ballando sulla terrazza degli studi Emi, otto gradini per entrare nella chiesa della storia musicale, al civico 3 di quella stessa via, memoria di un imprevedibile concerto finale. Non più chiome brillantinate, interpreti ingessati o rock americano ai quali eravamo abituati passivamente, ma roba europea, profumo di Londra e di tutto quello che veniva dall'isola della Regina, dal football alla minigonna, dalla popular music all'optical art, il thè alle cinque e i Beatles sul giradischi. Era il tempo del to beat or not to beat, o di qua o di là, o con loro o con gli Stones, due fazioni, due modi di vivere e di intendersi. Otto anni di sogno, l'arrivo dei quattro a Milano, la fotografia all'ultimo piano dell'hotel Duomo con la Madonnina alle spalle, poi il Vigorelli, due concerti, dodici canzoni in quaranta minuti, per i più giovani, scolari e studenti, un pomeriggio storico, orario da merenda (17), biglietto da 750 lire, a sera, per i «matusa», prezzi a tremila, torpedoni, biciclette, motorini e limousine con autista, un'esibizione quasi annoiata ma non per noi affamati di quarantacinque giri, Maurizio e i New Dada, Peppino di Capri, Fausto Leali, detto il quinto Beatle, con i suoi Novelty a contorno, non segnalata la Rai che snobbò i quattro, roba piccola, «incomprensibile e di un successo misterioso», arrivò a dire Giorgio Strehler. Quando Paul McCartney annunciò, sul Daily Mirror del 10 aprile del '70, di lasciare i Beatles, fu come se ci avessero portato via le figurine del presepe. Perché? Lo spiegò lui, con molta, troppa presunzione: «motivi personali, commerciali, musicali e poi voglio stare con la mia famiglia. Non sento la mancanza di Ringo o di George e non formerò nessuna nuova società artistica con John che rispetto e amo ma di cui non mi fa piacere il fatto che voglia restituire il titolo di baronetto». Sembrava la fine e invece fu l'inizio, come accade con i miti e le leggende. La musica dei Beatles, dopo lo scioglimento, dopo la morte aspra di George e quella tragica di John, è ancora più viva, centoottantotto brani originali e venticinque cover non appartengono al passato ma sono patrimonio anche delle nuove generazioni. Oggi, alcune delle loro creazioni accompagnano importanti spot pubblicitari, da All You Need is Love a Come together, da Yesterday a Drive My Car, da All My Loving a Here Comes the Sun, nulla è datato, tutto è attuale, vivo, fresco, come appena uscito dagli studi, in Abbey road, dove i litigi, le discussioni tra Paul e George e l'arrivo di Yoko, sembravano segnare l'inizio della fine.

Cinquant'anni dopo è come se tutto debba ancora ricominciare.

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