Tutti gli scrittori prima o poi sognano una storia piccola. Che possa accadere in un tempo unito e in uno spazio conchiuso. Semplice, così che tutti i lettori la possano amare, se lo decidono. Diretta, con dialoghi così essenziali che non avrebbero potuto essere detti altrimenti. Universale e inequivocabile, come la vita, ma soprattutto come la morte. Le nostre anime di notte (traduzione di Fabio Cremonesi, NN Editore, pagg. 170, euro 17), il piccolo libro di uno scrittore del Colorado scomparso il 30 novembre del 2014 di nome Kent Haruf, che ha divorato le classifiche contro ogni legge dell'editoria planetaria, ha tutte queste qualità e molte altre ancora. Il libro, uscito il 13 febbraio, in una settimana ha venduto più di 5900 copie ed è subito ntrato in classifica; al momento è secondo in Top ten ed è arrivato a quasi trentamila. È il quarto di Haruf che NN, una piccola casa editrice milanese che ha debuttato solo nel 2015, pubblica in Italia: gli altri tre ora sono diventati un cofanetto dal nome Trilogia della pianura e se lo meritavano perché Benedizione ha venduto 30mila copie, Crepuscolo 20mila e Canto della pianura 25mila. Un piccolo libro di cui Robert Redford si è innamorato: per Netflix ha prodotto il film che vede la sua reunion sullo schermo con Jane Fonda e nell'unica foto che circola online si abbracciano come ragazzini.
Che cosa racconta questo libro? Si potrebbe dire che parla di una coppia di anziani soli, Addie Moore e Louis Waters, che hanno trovato il modo di guarire da quella malattia vigliacca che è la solitudine tenendosi compagnia. È vero, la storia è questa: Addie ha l'idea di chiedere a Louis di andare a dormire da lei qualche notte, senza sesso, solo per stare vicini nel letto e parlare. E Louis ci sta. Ma è anche non vero: i due non sono anziani, almeno secondo le vigenti regole del costume occidentale. Sono «soltanto» intorno ai settanta, perciò, si direbbe oggi, «sono ancora giovani». E dunque: potevano «andarsene in crociera», «rifarsi una vita», «trovarsi un nuovo compagno». E non sono davvero soli, anche se non hanno più accanto chi amavano, nemmeno i figli: vivono in una comunità che li conosce, li sorveglia e in fondo li protegge, anche se il prezzo da pagare è sentirsi spiati e comportarsi come adolescenti passando dalla porta sul retro per evitare quello che forse è l'ultimo vero tabù del mondo occidentale, il gossip. Questa comunità si chiama Holt ed è l'Itaca di Haruf. Ovunque vada con le sue storie, lui torna sempre a Holt: lì, in quella cittadina immaginaria che però noi immaginiamo nel vero Colorado di Haruf, accade tutto, perché ci sono adulteri, bugie, amori, pianti, freddo, morti improvvise e vendette, ma tutto accade in quel modo goffo e improvviso così uguale alle nostre vite che ogni riga ci consola.
Allora diciamo che la storia si potrebbe raccontare così: ci sono Addie e Louis che fermano il tempo entrando insieme in una dimensione privata in cui si può entrare soltanto in due. Quella dimensione si chiama intimità e nel ventunesimo secolo è diventata come oro, incenso e mirra: viene da lontano, ha un sapore esotico, nessuno sa come comprarla. Holt è già un posto speciale, basta guardarne la mappa al termine del volume: un villaggio così regolare potrebbe anche essere pericoloso, uno come Lars von Trier potrebbe ambientarci Dogville. Ma Haruf ha avuto altri maestri: «Entrai al college pensando che sarei diventato un insegnante di biologia, ma appena iniziai il corso di Letteratura americana, e lessi Faulkner e Hemingway, la mia vita e le mie intenzioni cambiarono per sempre capii che volevo trascorrere il resto della mia vita leggendo grandi scrittori e pensando a loro. Ero semplicemente scioccato da ciò che Faulkner e Hemingway riuscivano a fare sulla pagina era come se le parole si sollevassero, come se emanassero una specie di aura iridescente, come se le storie fossero sante, sacre, le cose più importanti al mondo e non ho mai superato questa sensazione, non voglio superarla».
E così Holt è un posto santo, sacro. E così quando Addie e Louis vanno verso la loro intimità Haruf trasforma i loro gesti in rituali: la prima notte che Louis andrà da Addie si laverà con cura e si taglierà le unghie e metterà il pigiama in una busta. E dopo quella prima notte lo colpirà una malattia. Non grave ma sufficiente ad allontanarlo da lei per un po', un tempo giusto per creare la distanza che li rassicurerà sulle proprie intenzioni. Louis e Addie arrivano al massimo dello splendore nel buio, circondati dal silenzio, senza eccessi, nevrosi, angoscia. E quando si espongono al mondo e vanno al ristorante insieme, magari con una camicia rossa, è solo per divertimento. «L'altezza d'uomo» è stata la dimensione di Haruf anche nella vita. Dopo quel college, Kent, figlio di un pastore metodista, vive per due anni in un villaggio turco come volontario dei corpi di pace, insegnando inglese ai ragazzi delle medie. Poi fa domanda due volte per l'Iowa Writer's Workshop. La prima non viene ammesso. La seconda si trasferisce in Iowa prima ancora di avere la risposta: «A maggio ricevetti una lettera che diceva che mi avevano accettato nel programma. Ripensandoci, credo di essere stato accettato come in prova, per lo stupore se qualcuno si trasferisce in Iowa con sua moglie e una neonata nel bel mezzo dell'inverno, senza soldi né lavoro, dev'essere disperato. E lo ero. Avevo un disperato bisogno di imparare a scrivere». John Irving fu suo insegnante e lo aiutò a iniziare e, nonostante i molti mestieri che fece dopo di allora - allevatore di polli, muratore, infermiere, bibliotecario, insegnante di inglese - nel 1984 a 41 anni esordì con The tie that binds, inedito in Italia. Ma il successo arrivò solo nel 1999 con Il canto della pianura. Non esplose mai, non sfornò mai un bestseller, fu molto amato dagli scrittori. Ha sempre avuto un pubblico affezionato ma mai enorme. E poi è arrivata la morte. La vedova, Cathy, racconta che quando scriveva Le nostre anime di notte, Kent portava un cappellino calato sugli occhi: «Devo diventare cieco per vedere», diceva. Scrive la storia in sei mesi perché ha soltanto sei mesi: poche settimane dopo averla finita muore, per una malattia terminale ai polmoni, a 71 anni. Il libro è la nostra storia, dice la vedova.
Si potrebbero fare paragoni con Marilynne Robinson, Cormac McCarthy, John Edward Williams: scrittori per cui l'orizzonte umano, in fondo alla pianura o nel perimetro delle mura di casa, suggerisce ancora un senso. Ma non sarebbe corretto. Haruf è speciale a suo modo, perché con Holt e con Le nostre anime di notte ha rallentato il tempo e ci ha ricordato la nostra finitezza. Invece di detestarlo gliene siamo grati, perché ci ha fatto venire voglia di tagliarci le unghie e cercare qualcuno da abbracciare. Tra gli autori che sognano di scrivere una storia come quella di Haruf ci sono quelli di canzoni. E se proprio si vuole far assomigliare l'atmosfera di Le nostre anime di notte a qualcos'altro, si può pensare alla Canzone dei vecchi amanti di Brel, magari cantata da Battiato. I due vecchi di Brel hanno passato tutta la vita a sincronizzarsi, i due vecchi di Haruf si sono davvero conosciuti soltanto ieri notte.
Si tratta di capire se quando la fine si avvicina tutto quello che abbiamo da offrire è il nostro passato o possiamo sperare di indossare ancora con gioia una camicia rossa per sbattere in faccia al mondo lo scandalo della felicità.
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