"Manson e il deserto, I fantasmi dell'America s'aggirano in Nevada"

Claire Vaye Watkins, figlia del numero due della setta, racconta un Paese di violenza e perdita

"Manson e il deserto, I fantasmi dell'America s'aggirano in Nevada"

Tornato a casa in Italia, dopo quell'estate in America, Michele avrebbe potuto intrattenere gli amici. «Avrebbe raccontato loro dell'insondabile paesaggio americano, delle innumerevoli droghe americane, delle infaticabili ragazze americane. O, se si fosse sentito malinconico, avrebbe potuto dire semplicemente: Era bellissimo. Da quelle parti c'erano più stelle di quante ne avessi mai viste». Da quelle parti, però, nel deserto del Nevada, il suo amico Renzo si perde. Gli elicotteri lo cercano, invano, per giorni. Succede ogni estate, ai turisti in visita a Las Vegas. Anche questo è il Nevada: «Un luogo complicato e intenso, pieno di contraddizioni e di mistero» dice Claire Vaye Watkins, nata a Bishop, in California, nel 1984, cresciuta tra il deserto del Mojave e la città di Reno, autrice di una raccolta di racconti difficili da dimenticare, Nevada appunto (titolo originale: Battleborn, perché il Nevada diventò uno Stato durante la Guerra civile), che esce domani in Italia (Neri Pozza, pagg. 270, euro 18). Il deserto, le strade sconfinate, la desolazione e la polvere: «È stato il mio primo paesaggio, così, quando guardo dentro di me, spesso quello che vedo è il paesaggio del Nevada. Non so bene come spiegarlo, forse è soltanto una sensibilità che sorge nelle persone cresciute nel modo in cui lo sono stata io: da artisti, in mezzo a paesaggi straordinari».

Claire Vaye Watkins è figlia di Paul Watkins, «il numero uno di Charlie nel procurargli ragazzine», come scrive nel primo racconto (intitolato Fantasmi, cowboys). «Charlie» è Charles Manson. Paul Watkins aveva incontrato Manson nel 1967; insieme avevano scritto canzoni e campeggiato in giro per la baia di San Francisco, fino a che, nel gennaio del '68, si erano trasferiti con la «Famiglia» in un ranch sulle Santa Susana Mountains, sopra Los Angeles. È anche lì che comincia la storia, che comincia il Nevada di Claire: dalla strage dell'estate del '69, quando alcuni ragazzi della «Famiglia» uccidono Sharon Tate e altre quattro persone, nella villa di Polanski. Scrive Claire Watkins: «Mio padre non ha ucciso nessuno. E non è un eroe. Non è quel genere di storia». Una volta l'anno, più o meno, qualcuno contatta Claire: per farsi una foto con la figlia di Paul Watkins, o perché sta per produrre un film su Manson. Come si fa ad affrontare un passato così doloroso, e a farlo scrivendone senza retorica? Spiega l'autrice: «Ovviamente una quantità enorme di fattura, estremamente precisa e perfino ossessiva, è andata nello scrivere e nel riscrivere, proprio affinché il lettore potesse sperimentare un senso di freschezza e di immediatezza. È un paradosso interessante nella scrittura, il fatto che i pezzi più ricercati spesso siano percepiti come quelli più intensi emotivamente. È proprio quello che spero succeda, indipendentemente da quello di cui scrivo».

Ecco per esempio che cosa scrive della madre: «Posso parlarvi della lunghezza e della larghezza e del numero di tagli sui polsi di mia madre, e del colore che la sua pelle assumeva mentre guarivano, ma non potrei dire se l'avrebbe fatto ancora, e quando». È proprio la madre ad apparire come il mistero più complicato nella storia dell'autrice: «Sì, è veramente così. Ed è sicuramente per questo che continuo a tornare su figure come lei, ogni volta: donne indisciplinate, donne che si liberano dalle aspettative della società su di loro, o almeno ci provano». I protagonisti dei dieci racconti di Nevada sono tutti sopraffatti dal passato, anche quando l'ambientazione è contemporanea. «È così, nella mia esperienza. Una delle domande più importanti del libro è fino a che punto siamo davvero in grado di vivere nel presente senza passato pubblicizzato dai miti popolari del West americano». Infatti l'atmosfera del West è uno dei fili che legano i racconti (uno è proprio dedicato alla febbre dell'oro ottocentesca): «Le mie storie sono impregnate di questa atmosfera, soprattutto perché mi consente di iniziare a capire chi siano i personaggi, che cosa vedano e che cosa ne pensino: quale è l'interazione fra le loro esistenze interiori ed esteriori?».

Una espressione di questo legame è nel deserto, un'immagine che ricorre spesso nei racconti. «Di sicuro il deserto ha un ruolo metaforico ma spero, anche, di enfatizzarne gli aspetti materiali. Molti dei paesaggi del libro sono duri, e svolgono un ruolo attivo nella trama della storia: volevo che sia il lettore, sia il personaggio avessero una esperienza tangibile, sensuale del luogo». Così come tangibile è l'esperienza del dolore: «Credo che l'unico modo di trovare un senso al dolore sia riconoscere il fatto che è ininterrotto. L'approccio più compassionevole a qualcosa come il dolore, per il quale molti dei miei personaggi soffrono, è di inglobarlo come una parte di sé stessi e della storia di sé stessi. E credo che la letteratura possa aiutarci, in questo».

Nessuno sfugge al dolore, non solo perché i personaggi sono inesorabilmente perdenti e schiacciati dal passato, ma anche perché la violenza domina la realtà in ogni aspetto: nella natura, nelle relazioni, nei sentimenti, nell'amore, perfino nella nascita di un bambino. È questa l'America per Claire Watkins? «Sì, in un certo senso. Perché, per me, l'America è stata caratterizzata dalla tensione fra i valori che proclama e la loro messa in pratica, fra il suo mito e la realtà della sua fondazione. Trovo che questa sia una specie di ipocrisia stimolante». Una ipocrisia che va raccontata, secondo l'autrice, anche sfruttando registri stilistici diversi: «Cerco di evocare la musica dei grandi narratori con i quali sono cresciuta, ascoltandoli o leggendoli. Spesso metto insieme un mostro di due, tre o quattro influenze disparate o di registri contrastanti: è lì che nascono le cose più interessanti». L'obiettivo è uno stile «semplice e diretto, vicino, come uno sconosciuto che ti afferri per il bavero e ti dica: Devi ascoltarmi».

Ispirazioni? «Louise Erdrich, Joan Didion e Joy Williams sono fra i miei scrittori contemporanei preferiti, specialmente per come ciascuno ha illuminato, per me, la relazione speciale fra luogo e linguaggio, su come ciascun luogo debba avere una sua propria musica».

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