«Mercante è epiteto usato con sprezzo da chi del gran circo dell'arte vorrebbe vedere solo il numero finale, con gli applausi del pubblico, e non l'allenamento quotidiano, costi inclusi. E invece senza i grandi mercanti dovremmo riscrivere la storia dell'arte e del collezionismo. Se poi all'anagrafe questi si chiamano Heinz Berggruen (1914-2007) il credito cresce e le definizioni hanno sempre la coperta corta: mercante o critico d'arte? Giornalista o scrittore? Viveur o filosofo? Che vita, la sua. La distilla in gustose pillole in Ricordi di un mercante d'arte (Skira, pagg. 144, euro 14,90, traduzione di Enrico Arosio): pubblicato in Italia a dieci anni dalla scomparsa, racconta di un tempo in cui l'arte contemporanea non era in mano a poche gallerie né merce per fiere dal gusto modaiolo. Berggruen si è mosso in quel mondo con la sicurezza e la classe di pochi altri: fu amico di Picasso, Matisse, Giacometti, Mirò. Sapeva rispondere a tono a una piccata Gertrude Stein, ammirava la compostezza di Helmut Newton nonostante il successo, trovata le parole giuste per sottrarre l'Avvocato (sì, l'avvocato Gianni Agnelli, grande amante della pittura) da una cena d'affari per ammirare Paul Klee, condivideva con Diego Rivera, tra la altre cose, la passione per Frida Kahlo.
Pare di vederlo sorridere accanto alla moglie Bettina, compagna per 40 anni, con la chioma candida, la camicia in ordine e lo sguardo attento mentre sistema le pieghe della narrazione: ironico quando racconta il Picasso «geniale e mattacchione», commosso quando ricorda l'asta in cui ne acquistò il Nudo sdraiato, un quadro largo due metri con Dora Maar che piange «l'agonia dell'essere prigionieri». Dora, che per Berggruen è sempre stata solo «un frammento del pianeta Picasso», niente a che vedere con Frida, di cui il mercante fu fugace amante: «la delicata messicana dai vestiti meravigliosi» è per lui anche «formidabile artista». Berggruen, indole cosmopolita e convinto europeista, ha avuto un'adolescenza in salita come tutti gli ebrei tedeschi negli anni di ascesa di Hitler, ha passato il praticantato da giornalista redigendo necrologi che venivano spietatamente corretti dall'arcigna caporedattrice, ha scritto i primi elzeviri fulminanti a soli 21 anni per il Frankfuter Allgemeine. Poi c'è stata la fuga-esilio in California, il ritorno in Europa, con la rivoluzione copernicana cubista ed espressionista nel cuore, per aprire, in una Parigi vogliosa di rialzare il capo, la gloriosa Galerie Berggruen «nel negozio sotto il mio appartamento», approdo prediletto dei collezionisti più raffinati. Infine, atto estremo di conciliazione con la patria, il rientro a Berlino, città riunita, con la creazione del museo a Charlottenburg che porta il suo nome e che dal 2000 è di proprietà statale.
Dietro la facciata severa, va in scena la storia d'amore tra Herr Berggruen e il Novecento: un centinaio di opere di Picasso, dipinti di Klee, Giacometti, Matisse, Braque.«Ho quasi novant'anni e prima o poi dovrò dire addio. Ma la mia collezione resterà. Lei sopravvivrà, ed è questa la cosa più importante», scriveva. Così è stato.
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