Alle soglie dei novant'anni Giorgio Albertazzi è tra i pochi (anzi pochissimi) a poter sedurre le platee con la forza della parola. È tornato a teatro (al Parioli di Roma fino al 17 marzo) con Memorie di Adriano per la regia di Maurizio Scaparro. A fine spettacolo il pubblico si alza in piedi. E la standing ovation a teatro è merce rara.
Secondo lei il pubblico ha più bisogno di Albertazzi o di Adriano?
«Vorrei dire di tutti e due insieme. Adriano affascina per la sua attitudine medianica. Per quanto mi riguarda non ho mai avuto problemi col pubblico. Forse chi mi applaude trova affascinante questa mia identificazione che direi quasi molecolare con l'imperatore».
Dall'89 a oggi ha offerto spesso la voce a questo personaggio di Marguerite Yourcenar. Cos'è che trova irresistibile in Adriano?
«È il testo in sé che trovo stupefacente. Racconta tutto di un uomo: dalla culla alla scuola, dall'amore al potere, dal bisogno di libertà alla sua ricerca del bello. A commuovermi è proprio questo bisogno di bellezza, che da sola salverebbe il mondo. Ma anche la bellezza è umana e quindi mortale. D'altronde già Borges diceva che l'immortalità è terribile per l'uomo. E aveva ragione».
Il nostro Paese è in crisi profonda. Quali virtù dovrebbero avere i governanti di oggi? Valgono ancora i precetti di Adriano?
«Sono troppo lontani da quel modello di profondità umana. A proposito di questo, mi ha commosso Pannella che qualche mese fa mi ha chiamato per dirmi: Scendi in campo. Devi essere il nostro Adriano. L'imperatore aveva una lungimiranza politica ancora insuperata. Pensava che la lex romana si dovesse estendere dovunque ma per avere come denominatore comune il senso del bello».
A proposito dei politici in tv, ha detto: «leggono tutti lo stesso copione. Servirebbe non dico uno Shakespeare ma almeno un mezzo Pirandello».
«Se si guarda bene abbiamo costruito nel tempo una vera e propria trappola fatta di conformismo dalla quale è difficile uscire. Servirebbe una rivoluzione addirittura linguistica».
Proprio quello che teorizza Grillo.
«Capisco le sue motivazioni, fatte salve alcune sue intemperanze. Ma mi domando: ci sarà il tempo per questo cambiamento? E mentre cambiamo il nostro modo di pensare, l'Italia che fa? Chi ne reggerà le sorti?».
Adriano pensa all'eutanasia e dice: «è difficile restare imperatore sotto gli occhi di un medico». Pensa che i temi etici siano un banco di prova necessario per il buon governo?
«Assolutamente. Deve pensare che quando Adriano era al potere gli dei pagani non c'erano più e Cristo era ancora lontano dall'essere un oggetto di culto diffuso. Quindi quell'imperatore ha vissuto nel momento migliore per ipotizzare un allargamento dei confini del senso della vita. Ora c'è troppo assolutismo. E serve maggiore coraggio per essere libertari. Il vero problema è un altro, però».
E quale?
«La burocrazia. La burocrazia è la cancrena mafiosa del nostro Paese. Un grande blocco kafkiano. E io stesso ne pago le conseguenze».
Come mai?
«Vorrei riaprire il Teatro delle Arti a Roma. Disegnato da Piacentini e reso celebre da Anton Giulio Bragaglia. Ma la macchina burocratica è micidiale».
A proposito di teatro, non si fa molti amici dicendo che i tagli
«Di nemici me ne sono sempre fatti tanti. E ho sempre pagato caro. Se non mi hanno mai piegato quando ero giovane si figuri se ci riescono adesso».
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