Cultura e Spettacoli

Miti, illusioni, desideri del disincantato Mughini intellettuale inattuale

Ricordi privati e memorie collettive del '900 nel racconto di un protagonista. Tra arti e idee

Miti, illusioni, desideri del disincantato Mughini intellettuale inattuale

L'idea che alla metà degli anni '60, il ventiquattrenne Giampiero Mughini ritenesse indegno appassionarsi al gioco del calcio è una di quelle curiosità di cui è pieno il suo Nuovo dizionario sentimentale (Marsilio, pagg. 282, euro 18) e che mi strappano un sorriso divertito, se si pensa quanto e come il football gli abbia poi condizionato la vita. Mughini ha scritto una ventina di libri, tutti ben rifiniti e pieni di idee, tutti con un buon successo di vendita, ma ogni volta che prende un taxi o va a bersi un caffè non c'è taxista o barista che non gli chieda del calcio mercato o dell'ultima partita della Juventus, la sua squadra del cuore. È indubbio che in Italia ci siano più baristi e più taxisti che lettori, ma mi ricordo che una volta a Perugia, dove eravamo in tandem a parlare di non so più cosa, ma di certo roba pesante e probabilmente noiosa ai più, al termine della serata spuntò finalmente un lettore e, mentre si faceva autografare la sua copia, ne approfittò per chiedergli di Platini. «Di calcio parlo solo in televisione e solo a pagamento» gli rispose bruscamente, ma sorridendo. «È la legge del contrappasso» gli dissi poi. «Sei il solito coglione» fu la replica. Avevamo entrambi ragione.

In quella metà degli anni '60, il giovane Mughini non era comunque il solo a pensarla così. Il calcio era uno sport popolare, ma tranne le doverose eccezioni che confermano la regola, all'intellighentia di sinistra, l'unica deputata a ritenersi intelligente, il calcio puzzava di oppio dei popoli e, naturalmente, di fascismo. La parola patria aveva ceduto il posto al più anodino Paese e qualche frammento di «nazione» sopravviveva nelle sostantivazioni brachilogiche del linguaggio sportivo, «la nazionale di calcio», «la nazionale di nuoto», e lì sorvegliata con occhio censorio anche da intellettuali intelligenti e fuori dagli schemi come Ennio Flaiano, il cui lungo sonno durante il fascismo gli aveva lasciato incubi antifascisti. In un film di Marco Tullio Giordana, La meglio gioventù, uno dei protagonisti, perfetto esempio del di lì a poco sessantottino contestatore, applaude con gioia al coreano Pak-do-Ik che elimina l'Italia dai mondiali del 1966

Oltre a disdegnare il calcio, in quel 1965 Mughini era già il fondatore e direttore di una rivista che si chiamava Giovane critica, allora molto considerata, ed era, insomma, al suo meglio, un concentrato della «passione determinante in quegli anni, la passione per le idee del dibattito politico e culturale». Un'altra curiosità che spunta dal Nuovo dizionario sentimentale conferma questo «ritratto di un intellettuale di sinistra da giovane» ed è il non aver letto, da ragazzo, I tre moschettieri di Dumas, che per me ragazzo non è stato un romanzo, ma un'estetica della vita: la fedeltà alle amicizie e non alle idee, o, peggio, alle ideologie, il mantenere sempre la parola data, il gusto di fare banda a parte, la sprezzatura del comportamento Sottolineo tutto questo perché rende ancora più chiaro l'incredibile salto mortale (del resto da giovane Mughini è stato un buon ginnasta) di cui successivamente sarebbe stato capace nel rimettere in ordine criticamente le sue idee, il suo mondo, le sue chiavi di lettura del mondo «altro», in breve lo sterminato e spesso sconsiderato continente della sua generazione. Da questi salti mortali, quando riescono, si esce in piedi, si esce vittoriosi, ma si esce soli. E così è stato. Per evitare a questo punto il rischio della retorica, non mi resta che ricorrere all'ironia bonaria del fascista Longanesi nei confronti del Giovanni Ansaldo un tempo oppositore di Mussolini: «Badi che lei si è salvato per un miracolo, all'ultimo momento, dall'essere il solito antifascista fesso! Da giovane aveva preso una brutta strada».

Nuovo dizionario sentimentale fa il verso nel titolo al Dizionario sentimentale che Mughini scrisse ormai trent'anni fa e che, fossimo la Marsilio, ripubblicheremmo pari pari, magari cambiandogli nome, che so, Alfabeto del Novecento, tanto ancora oggi è pieno di vita Questo appena uscito si differenzia completamente nella sua struttura, perché allinea due lunghi saggi, uno sui moti parigini del febbraio 1934, il cosiddetto «68» della destra d'allora; l'altro sulla nascita dello Stato di Israele, un concentrato di terrorismo e di violenza non indifferenti. C'è inoltre un bel profilo di Clint Eastwood, una lunga intervista con Leonardo Sciascia, le ultime ore di Marco Pannella, un capitolo doloroso dedicato alla figura materna, un capitolo allegro dedicato ai cani di casa, due setter, i cui nomi, Clint e Bibi, rimandano a due miti, non solo cinematografici, mughiniani: Eastwood e Brigitte Bardot.

Ci sono poi altre cose, che lascerò al lettore il piacere di scoprire, perché poi una recensione non è la lista della spesa, ma quel che viene fuori dall'insieme è un sentimento particolare, che non saprei ben definire, che non ha a che fare con la nostalgia o con il rimpianto, ma con l'inattuale, una specie di disagio rispetto al mondo che gli è toccato in sorte. Non che Mughini sia un antimoderno, tutt'altro, figlio esemplare semmai del modernismo novecentesco e post novecentesco, dal design alle serie tv satellitari alla moda, ma prendiamo questa sua annotazione, a chiusura di quel lungo saggio sulla destra francese prima citato: «Sensuali dell'attualità, uomini dalle cento revisioni e sempre disposti a giocare tutto se stessi, gli uomini dei trenta sono forse i fratelli maggiori della generazione europea dei sessanta, impegnata anch'essa nella revisione dei teoremi precedenti e nell'esplorazione di territori inusitati. Solo che sulla nostra scena intellettuale c'erano soltanto i metalmeccanici di Mirafiori e l'ospedale psichiatrico di Gorizia, Oreste Scalzone e Renato Curcio, qualche trockista di mezza età e qualche abatino ebbro della Rivoluzione culturale cinese. Nella scena intellettuale della generazione dei trenta ci fu l'agonia e la morte di una certa Europa».

Infine, si colga questo passaggio al volo: «Se per caso qualcuno mi invita a cena e lì c'è gente che non conosco, per tutta la sera parlano di se stessi. Non esiste più nessuno che mostri curiosità per gli altri, voglia di ascoltarli, magari di imparare qualcosa. Dicessi che ho un tumore e che fra tre ore sarò morto, passerebbero immediatamente all'argomento successivo».

Inattuale, sì. E come dagli torto?

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