Cultura e Spettacoli

Il mondo di Krasznahorkai (e il nostro) non ha pace

Un archivista è ossessionato da un dattiloscritto misterioso. Che spiega il destino dell'umanità

Il mondo di Krasznahorkai (e il nostro) non ha pace

Non importa che la sequenza delle edizioni italiane dei suoi romanzi ne modifichi la reale successione. Non importa, nonostante il loro autore abbia affermato di aver «realmente scritto un solo libro. Questo libro è Satantango, Melancolia, Guerra e guerra e Barone. Questo è il mio unico libro». Del resto, per László Krasznahorkai il tempo è un'opinione che dipende dallo spazio (e viceversa), vista la sua predilezione per il cinematografico montaggio alternato che ha messo a frutto nella lunga collaborazione con il regista Béla Tarr. Inoltre la serialità non gli appartiene, e men che meno utilizza l'espediente della saga. Inoltre, i quattro capitoli, chiamiamoli così, del suo unico libro (intervistato un anno fa da Alessandro Raveggi per Esquire ne suggeriva il titolo virtuale: Sconfitta, con il sottotitolo Manicomio come rifugio) sono quattro eoni che stanno per i fatti loro, e soltanto colui che li vede da fuori, vale a dire l'altrettanto appartato e bastevole a sé stesso Dio Lettore, può scorgere in essi similitudini e sovrapposizioni.

Dunque, dopo Melancolia della resistenza, sua prima opera tradotta in italiano (edita da Zandonai nel 2013 - Bompiani la ripropose nel 2018), Satantango e Il ritorno del barone Wenckheim, ecco di nuovo fra noi Krasznahorkai con Guerra e guerra, anch'esso per Bompiani (pagg. 399, euro 20, traduzione di Dóra Várnai). Puntualmente, un'altra «sconfitta», come prefigura in Melancolia della resistenza il signor Eszter, quando dice: «la gente parla di apocalisse e giudizio universale perché non sa che non ci sarà né un'apocalisse, né un giudizio universale... sarebbero completamente superflui, le cose vanno in rovina da sole, tutto si distrugge per poi ripartire di nuovo da capo, e avanti così senza sosta, evidentemente perché così deve essere».

Tuttavia in Guerra e guerra abbiamo due elementi innovativi, nell'impianto romanzesco di Krasznahorkai, solitamente stanziale nella sua Ungheria, che potenziano la trama e le conferiscono dinamismo. György Korin, ex impiegato in un archivio statale di una città ungherese di provincia riconoscibile nella Gyula dove l'autore è nato nel 1954 e dove, pur mascherandola, ha strutturato gli altri tre capitoli, agisce su impulso di un dattiloscritto misterioso, trovato casualmente in un faldone. Inoltre, spinto dal contenuto di quello che per noi lettori diventerà il libro nel libro, decide di portare a termine il suo «Grande Progetto» facendo un «grande viaggio» per raggiungere il «centro del mondo». Così, dopo una sorta di introduzione datata 1992 in cui fin da subito apprezziamo la follia profetica del Nostro («Io non sono impazzito, gli occhi color pozzanghera di Korin si illuminarono per un attimo di un lampo minaccioso, ma vedo le cose con una tale chiarezza che è come se lo fossi») che è convinto di «aver bevuto in qualche modo l'acqua del Lete» e rovescia una fluviale verbosità su chiunque incontri, nel novembre del '97 voliamo, in compagnia dell'Isaia del terzo millennio, a New York.

Qui i piani narrativi diventano due, e procedono in parallelo. Da una parte la miserevole quotidianità del protagonista, ospitato da un losco compatriota e completamente smarrito in una città che gli appare come una moderna torre di Babele. Dall'altra il susseguirsi delle storie riportate nel «fascicolo segnato come IV.3/1941-42». Infatti Korin lo ha trafugato dall'archivio-spelonca dove lavorava e lo porta sempre con sé. Lui «doveva trascrivere questa bellissima, magica opera trovata in archivio in quella cosa con quel nome strano che era internet, ma che era anche completamente spirituale, poiché esisteva soltanto nell'immaginazione creata e sostenuta dai computer, e di conseguenza era immortale, ce la doveva trascrivere in modo da ascriverla all'eternità, perché se ci fosse riuscito, disse a se stesso, allora non sarebbe morto invano». Insomma, l'ex archivista vuole archiviare in un archivio immateriale, quindi eterno.

Appresi i rudimenti d'informatica, Korin acquista un computer e apre un file in cui riscrive parola per parola il fascicolo che ha letto decine e decine di volte, che è diventato il suo libro sapienziale. Fa del testo un sito che chiama warandwar.com. «Guerra e guerra», il titolo del libro che stiamo leggendo anche noi. Perché «guerra e guerra»? È forse una parafrasi del capolavoro di Tolstoj? Sì e no...

Compulsando il documento tramite la verbalizzazione che ne fa giorno per giorno il Nostro alla compagna-schiava del padrone di casa, seguiamo le vicende di quattro uomini avanti e indietro lungo la strada ingarbugliata delle epoche storiche. Passiamo così dall'isola di Creta nei giorni e nelle ore che precedono il maremoto che si abbatte sulla civiltà minoica alla Colonia del XIX secolo in cui riprende la costruzione del Duomo; dal regno della Serenissima nel 1423, anno della morte del doge Tommaso Mocenigo, alla Britannia durante l'edificazione del Vallo di Adriano; dalla Gibilterra finis Terrae che Cristoforo Colombo si è lasciato alle spalle per giungere nelle Americhe alla Roma violentata dai barbari. Due sono i comuni denominatori, in queste sontuose pagine: un uomo di nome Mastemann, presente ovunque come un Faust messaggero di distruzione, e l'esito di questi sei episodi, di questi sei atti teatrali che sono tutti, in un modo o nell'altro, momenti di passaggio da una guerra all'altra, «perché non esisteva una Via d'Uscita, signorina», chiosa Korin esausto, giunto quasi al termine della sua missione.

Gli manca soltanto una cosa da fare dopo aver eternato, gettandolo nella Rete, il messaggio del libro nel libro: darsi la morte.

Il sarcasmo con cui Krasznahorkai mette in scena la sua fine surreale, una volta che siamo tutti tornati nel vecchio mondo, è amaro, ma anche permeato dalla dolcezza con cui si è preso cura, dalla prima all'ultima parola, della sua indimenticabile creatura.

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