«Non c'è niente di peggio che inseguire sempre il meglio»

Psicologo, danese e «stoico» ha scritto un manuale contro i manuali di auto-aiuto: «Non servono, meglio essere stessi»

Eleonora Barbieri

Svend Brinkmann ha letto decine e decine di libri di self help; ne ha anche recensiti molti, in Danimarca. Di mestiere, Brinkmann è professore di Psicologia all'Università di Aalborg e ha studiato a lungo «l'impatto della cultura moderna sulla nostra vita mentale». Così ha combinato le due esperienze: «Le ho messe insieme e ho deciso di scrivere un libro di critica culturale, mascherato da manuale di autoaiuto - o un manuale contro il self help, se si vuole...» spiega Brinkmann tra un impegno e l'altro. Perché da quando ha pubblicato Contro il self help. Come resistere alla mania di migliorarsi (Raffaello Cortina editore, pagg. 176, euro 15) Brinkmann è molto richiesto in documentari, conferenze e programmi radiotelevisivi, soprattutto in Danimarca, dove il suo anti-manuale è stato un bestseller.

Svend Brinkmann, che cos'è la «mania di migliorarsi» di cui parla?

«È la pretesa di migliorare te stesso, sviluppare te stesso, realizzare te stesso e diventare la versione migliore di te stesso di fronte alla quale oggi uomini, donne e bambini si ritrovano in molti contesti, nella vita privata, al lavoro e a scuola».

E perché è un problema?

«Innanzitutto perché può essere piuttosto stressante essere sempre in movimento, sempre impegnati nell'apprendimento continuo e in processi di sviluppo. Secondo, perché questa follia contiene un messaggio implicito per l'individuo: non sei mai bravo abbastanza».

Non basta mai?

«Non importa quello che facciamo, non saremo mai all'altezza. E questo, in realtà, è un pensiero che si ricollega alla depressione. Potrebbe spiegare in parte perché assistiamo a una epidemia di depressione in Occidente: perché siamo costantemente messi di fronte a richieste di migliorarci e progredire, anziché vivere in comunità con altre persone».

Quindi dovremmo «restare saldi»?

«Sì, per andare contro questa tendenza culturale di cambiamento continuo e di sviluppo. Se non rimaniamo fermi, ciò che è veramente importante nelle nostre vite, eticamente ed esistenzialmente, non è in grado di mettere radici. Come i doveri nei confronti degli altri».

Quali sarebbero i vantaggi del rimanere fermi?

«Meno stress, un approccio più realistico alla vita e a sé stessi, e maggiori opportunità di vivere una vita eticamente impegnata».

Ma perché l'apprendimento continuo non è un ideale, bensì un incubo?

«L'apprendimento per tutta la vita è la versione istituzionalizzata della mania di ottimizzare sé stessi. Certo, è una cosa buona apprendere delle abilità e acquisire nuove conoscenze; ma se tutte le tue capacità diventano temporanee - perché nel giro di breve tempo dovrai imparare e fare qualcosa d'altro - allora il sogno di imparare si trasforma rapidamente in un incubo, per tutte quelle persone, e sono molte, che si sentono insicure e inadeguate».

Che cos'è la «sindrome del benessere»? Ci ha contagiato tutti?

«Sì, colpisce tutti. Non ci è permesso sentirci tristi, per esempio, perché sarebbe una minaccia alla produttività. Tutti dovrebbero essere felici in ogni momento, il che, ovviamente, non è possibile: e questo può portare a una tristezza ancora maggiore, quando le persone cominciano a biasimare loro stesse per il fatto di non essere felici».

E per fare tutto questo bisogna guardare indietro, allo stoicismo, come suggerisce nel libro?

«Lo stoicismo è una delle poche tradizioni filosofiche che abbia introdotto un approccio pratico a come essere all'altezza dei doveri di ciascuno come essere umano. Credo che sia un correttivo fondamentale per la mania di migliorarsi. Lo stoicismo vuole aiutarci a diventare buoni essere umani, non la versione migliore di sé, individualmente».

Senta, ma una anti-guida non è un paradosso?

«Sì, certo. Il mio manuale è scritto per coloro che odiano le guide. Un saggio di autoaiuto contro i saggi di autoaiuto».

Come si spiega il successo che ha avuto?

«Sempre più persone hanno cominciato a capire che la pretesa di migliorarsi e l'imperativo della felicità non sono più un aiuto per noi, bensì una minaccia a una esistenza decente. E così iniziano a cercare voci critiche e alternative».

Qual è la cultura che critica?

«Quella della accelerazione sociale, della felicità e della positività forzate».

In tutto questo progressismo, il conservatorismo che fine fa?

«Dato che tanti ci ripetono di migliorare, cambiare, imparare, essere flessibili, adattarci, rinnovarci, ecco, tutto questo è diventato il nuovo consenso; e così, una certa dose di conservatorismo, che per esempio enfatizzi i valori umani comuni, in realtà oggi è diventata qualcosa di veramente progressista».

Ma lei ha trovato un equilibrio?

«In realtà no. Faccio parte di questa cultura come chiunque altro...».

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