Firenze - Sì d'accordo, qualche filo grigio si innerva nel suo caschetto, e lui, Cristiano De André solo per caso figlio d'arte, qualche volta finisce per immelmarsi nella malinconia. Però ce l'ha fatta dopo dodici anni trascorsi, accidenti, senza incidere canzoni inedite. E Come in cielo così in guerra, che uscirà martedì, è forse il suo miglior disco tanto è ben cantato e soprattutto vissuto, immerso com'è in un macramé di virtuosismi, arrangiamenti raffinati e persino demodé, e in parole abbracciate così strettamente da disegnare perfetto il suo nuovo identikit. «La mia fragilità la faccio vedere», ha detto l'altra sera giusto dopo essere sceso dal palco del Teatro Verdi di Firenze dove aveva debuttato il suo tour, concerto intenso e per metà sconosciuto al pubblico visto che in scaletta, oltre ai capolavori del padre, da Il pescatore e Sidun ad esempio, c'erano tutte le dieci nuove canzoni, tutte. E lui le ha cantate concentratissimo, qui e là incerto e innervosito da problemi tecnici, dannatamente affamato di mostrarsi a cuore aperto, nudo sotto le luci.
Non per nulla, caro Cristiano, alla terza canzone si è subito lanciato in un monologo che partiva da là, da suo padre, per arrivare al Sangue del mio sangue, ossia ai figli.
«Sono sicuro che, se non fosse morto, papà ed io avremmo collaborato ancora. Il suo più grande regalo è stato quando disse: Mio figlio è un musicista».
Detto da un maestro.
«Paradossalmente sono stato fortunato ad avere un padre alcolista, già a dieci anni sentivo il suo dolore e, mentre imparavo a capire cos'è, mio padre mi ricambiava riempiendomi di bellezza, con Marquez e Merini, con quella bellezza che abbiamo perso».
Il titolo del disco è la rivisitazione di un verso del Padre nostro. Anche inconsciamente il padre c'è sempre.
«Avrei voluto stare sempre con lui, a volte tornavo a casa alle 2 del pomeriggio ed era già ubriaco. Mi lasciava solo. Ho vissuto tutta la vita con il senso di colpa per questa lontananza».
Lei canta l'adattamento in italiano di un brano dei Noir Désir, Il vento soffierà, e un pezzo che sembra il biglietto da visita della sua vita: Non è una favola.
«Parlo delle cose che abbiamo lasciato o perso. Ho trascorso un anno da solo a scriverlo, questo disco, con la paura di non riuscirci. Quando è morta mia mamma (Enrica Rignon detta Puny - ndr) pensavo di smettere. Sono andato in depressione, non riuscivo ad accendere la luce né ad ascoltare più i pezzi di mio padre. Ma, come diceva Màrquez, siamo pezzi di carne con gli occhi, e per fortuna ho rivisto la luce».
È una costante sua, mi pare, gli alti e bassi dell'anima.
«Ora mi sento in dissincrono con la storia che mi gira intorno. E la mia vera felicità sarebbe non scendere più dal palco. In fondo, con la voce e il tono che ho, sono anche l'unico che può cantare la musica di mio padre».
A fine concerto c'erano ragazzini in festa sotto il palco.
«Potrebbero essere miei figli. O suoi nipoti».
A proposito: Sangue del mio sangue.
«Pensando ai miei quattro figli canto Profonda e naturale la nostra sintonia».
Forse partecipando all'Isola dei Famosi Francesca l'ha un po' incrinata?
«Ce l'ho con lei non per quello ma perché ha talento e non si fa il culo per dimostrarlo. Come tanti figli, è attirata da quella parte di società che non mi piace, estemporanea e sdrucciolevole, chiamiamola velinismo. Mio padre era figlio del vicesindaco di Genova e fratello dell'avvocato della Montedison: per salvarsi si è buttato a capofitto nella scrittura di canzoni».
Il confronto con i genitori è il motore di tante scelte.
«Lui viveva i propri brani. Dopo l'album Storia di un impiegato, pensavano fosse un fiancheggiatore delle Br.
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