Ozon perdona, Koolhoven si vendica

Il regista francese porta in concorso «Frantz», l'olandese «Brinstone»

da Venezia

Il fanatismo, con annessi delitti senza pentimenti, nonché vendetta incorporata, sbarca in concorso al Festival travestito da western in salsa gotico-olandese. Brimstone è il suo nome, Martin Koolhoven il regista suo profeta, Dakota Fanning e Emily Jones le sventurate eroine, Guy Pearce il diabolico predicatore protestante ossessionato dal sesso. C'è di tutto e di più: budella arrotolate intorno al collo, lingue tagliate, impiccagioni sparse, incendi a profusione, un po' roghi purificatori, un po' simboli infernali: zolfo, del resto, è la traduzione in italiano del titolo e la sua scia e il suo odore diabolico è quanto Koolhoven vorrebbe trasmetterci... Indubbiamente, ce la mette tutta: divide biblicamente il film in quattro parti, Apocalisse, Esodo, Genesi, Castigo, costruisce un rosario di prevaricazioni e punizioni, scombina la cronologia e per più di due ore lascia lo spettatore nell'attesa di una possibile redenzione finale... Se quest'ultima avvenga o meno, non staremo a dirlo, ma Brimstone ha il tipico difetto che nasce dall'eccesso e che come risultato finale ha il rigetto. «Ha per tema la religione e la violenza - spiega Koolhoven - ma è anche la storia di una donna decisa a sopravvivere agli orrori che incontra». Cupo quanto sinistramente illuminato, il film alterna paesaggi aridi oppure innevati, ambienti sempre e comunque sordidi, vite primitive e miserie umane. A Guy Pearce mancano solo le corna e gli zoccoli caprini...

Stremati dal male, pubblico e critica hanno comunque trovato il loro angolo di bene nell'altro film in concorso, Frantz, di François Ozon. Il regista è un veterano, fuori e dentro il concorso: Amori criminali, Cinque-per-tre-Frammenti di vita amorosa, Potiche... Frantz si rifà a una pièce teatrale di Maurice Rostand, poi adattata da Ernst Lubitsch sullo schermo negli anni Trenta, Broken Lullaby. Il testo di Rostand era coevo all'epoca raccontata, gli anni subito dopo la Grande guerra, il rifacimento di Lubitsch ne esaltava il coté romantico sentimentale, ovvero il complicato rapporto fra la fidanzata di un giovane soldato tedesco morto al fronte e il giovane francese che lo ha ucciso, venuto poi a guerra finita a piangere sulla sua tomba. Ozon invece ci vuole mettere dentro troppe cose: l'umiliazione della sconfitta, il senso di colpa e la difficoltà a perdonare... Pierre Niney è un disperato quanto fragile Adrien, il giovane francese, Paula Beer è Anna, l'affranta fidanzata per la quale vivere è divenuto un peso. Nell'intreccio di verità e di bugie che suggellano questo incontro-scontro di nazionalità e di stati d'animo, non sempre tutto fila liscio e l'impressione è che il regista a volte imbocchi una strada per poi lasciarla bruscamente cadere. «Volevo giocare con temi tipicamente melodrammatici dice - la colpa, il desiderio di espiazione, per poi virare verso la desincronizzazione dei sentimenti».

Curato nella ricostruzione di un'epoca, con il perdono che a volte sfocia in perdonismo, Frantz non risolve mai il dilemma di che tipo di film vorrebbe essere: d'amore, di

guerra, di denuncia, pacifista eccetera. Alla fine, Anna torna a credere all'amore contemplando al Louvre un quadro di Manet intitolato Il suicida e insomma per i francesi del Duemila i tedeschi sono sempre quella cosa lì...

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