"Per parlare di America scrivo un romanzo ambientato a Venezia"

L'autore: "Il nuovo libro sarà pubblicato prima in Italia. È la mia seconda patria, amo Natalia Ginzburg e Carlo Levi"

"Per parlare di America scrivo un romanzo ambientato a Venezia"

David Leavitt ha esordito come enfant prodige della letteratura americana: nato a Pittsburgh nel 1961, a ventitré anni si è fatto conoscere grazie a una raccolta di racconti, Ballo di famiglia, elogiatissima dalla critica. Oggi, molti romanzi, saggi, romanzi storici e racconti dopo, lo scrittore americano ricorda, al telefono dalla Florida (dove vive, e insegna all'università): «Il successo mi ha influenzato? Non lo so. Mi ha aiutato, oppure no? Non saprei dire. È passato tanto tempo...» In attesa del nuovo romanzo, che sarà pubblicato da Sem l'anno prossimo (probabilmente con il titolo Il decoro) e che «potrebbe uscire prima in Italia che in America», la casa editrice sta ripubblicando tutto il catalogo di Leavitt. Dopo Il matematico indiano (uscito a fine gennaio), sono appena tornati in libreria il romanzo Eguali amori (storia di una famiglia che fa i conti con se stessa, al momento della morte della madre) e la raccolta di racconti Un luogo dove non sono mai stato (dove riappaiono, fra gli altri, i protagonisti di Ballo di famiglia).

David Leavitt, Eguali amori è un romanzo autobiografico?

«In qualche modo. La madre è la mia, sicuramente; ma per esempio la sorella di Danny, April, non è mia sorella... C'è anche dell'invenzione. La parte più autobiografica è l'agonia della madre, la sua lunga morte».

È un racconto molto duro.

«L'ho scritto non tanto tempo dopo che era morta mia madre: è stato come un resoconto, molto immediato, di quello che era successo. Oggi lo scriverei diversamente».

Racconta anche della sua infanzia in California. Come è stato crescere a Palo Alto, negli anni '60 e '70?

«Allora era una città universitaria, con tanti hippie, piccole librerie e negozi di dischi indipendenti, caffè...».

Oggi?

«Oggi è completamente diversa. È qualcosa di cui vorrei scrivere. Ci sono tornato due anni fa, dopo tantissimo tempo, per una ricerca a Stanford».

Che cosa ha trovato?

«È tutta cambiata. Ora la University Ave è identica a qualunque via del lusso di ogni altra grande città, New York, o Milano. Non capisco come gli studenti possano permettersi di vivere lì. Per me è stata una esperienza triste».

È vero che suo padre, professore a Stanford, ha inventato la parola Information technology?

«Forse. Me lo ha detto lui stesso, prima di morire. Non ne era sicuro. Di certo è stato uno dei primi a usarla, ma lui era molto modesto».

La figura di sua madre ha influenzato quella delle donne nei suoi libri?

«Beh, mia madre era una donna molto forte. Indipendente, una che sfidava le convenzioni. La sua vita è stata tutta vissuta nello stesso modo in cui ha affrontato il cancro».

Al centro del romanzo c'è una famiglia molto complicata: rapporti in bilico da anni, vecchi rancori che esplodono, l'omosessualità dei figli che ancora non è accettata in pieno dalla madre...

«In questo, più che il memoir, c'è l'invenzione del romanzo. Sono mescolati. Oggi invece sono più incline a scrivere o una vera autobiografia, o pura fiction».

Ma la famiglia è sempre così ingarbugliata?

«La famiglia è uno dei grandi soggetti da romanzo. Ho appena riletto la vostra Natalia Ginzburg. E, se non leggo di famiglie, tendo comunque a notare come le persone vivono in famiglia. Per me è un tema ineludibile».

Perché è sempre così attento ai dettagli, anche banali, della vita quotidiana?

«È di quei momenti che è fatta la vita. Di solito nelle nostre vite non c'è il dramma, come al cinema: la complessità nasce, più che altro, dai piccoli dettagli».

Come si immedesima nel punto di vista di uomini e donne, indifferentemente?

«Credo che esista un terreno comune all'esperienza umana: non ho problemi a mettermi in un punto di vista o in un altro, ed è quello che incoraggio anche i miei studenti a fare, a superare il genere».

Un luogo dove non sono mai stato, invece, è una raccolta di racconti. Un'altra, sei anni dopo il successo di quella d'esordio. Un rischio?

«Ero così giovane... Non pensavo alla carriera: scrivevo quello che volevo scrivere. Il terreno comune a queste storie è lo sradicamento, l'essere lontano da casa. Ci sono storie ambientate in Italia, dove poi ho vissuto, negli anni Novanta. Le ho scritte tutte velocemente».

Che cos'è questo sradicamento?

«Parlo di persone che si sentono perse e cercano un posto dove non sentirsi più così. Una specie di casa. Ora, che sono più vecchio e più cinico, credo che non troveremo mai questo posto: lo cercheremo sempre».

Le manca l'Italia?

«Ho vissuto nel vostro Paese quasi nove anni. È la mia seconda patria. Mi manca sempre».

Come sarà il nuovo romanzo?

«Sto lavorando a una trilogia. Il primo volume è ambientato a New York, oggi. Il secondo a Venezia, il terzo di nuovo a New York. La scrittura è molto diversa dai libri precedenti: ci sono tanti personaggi ed è costituito al 75 per cento di dialoghi. E, soprattutto, parlo del 2017, non del passato».

Una sfida?

«La domanda è: come scrivi un romanzo sul mondo in cui vivi? È stato interessante trovare la struttura e lo stile adatti. Un grosso lavoro, diviso in tre, anche perché amo moltissimo i romanzi in serie e le collezioni».

E come ha trovato questa struttura?

«Ho iniziato con un americano che compra una casa a Venezia, per scappare dall'America di Trump. Sa, Venezia è nella letteratura, e in tutto, un luogo a sé: per noi americani è la fuga per eccellenza».

Quando uscirà?

«Dovrei finire il primo libro in settembre. Credo che uscirà fra un anno negli Stati Uniti; ma probabilmente sarà pubblicato prima in Italia».

Insegna Scrittura creativa. Questi corsi sono utili?

«Possono esserlo, se ben fatti. Spesso non lo sono. I miei sì, eh...».

Lei ha avuto, come insegnanti, Harold Bloom e Gordon Lish.

«Sono stato molto fortunato. Bloom insegnava Letteratura, Lish è stato il maestro di scrittura più importante che abbia avuto».

Perché?

«Perché capisce come funziona un romanzo. Era molto duro, al momento giusto. Mi ha insegnato il rispetto nei confronti del romanzo: devi sempre pensarlo come un'opera d'arte, che non è una email... E poi mi ha trasmesso la passione e l'amore intenso per la letteratura».

Che scrittori legge?

«Da giovane John Cheever, Penelope Fitzgerald, Ford Madox Ford. Oggi amo molto Rachel Cusk. E poi Joseph Roth, Natalia Ginzburg, Carlo Levi».

Che obiettivo ha quando scrive?

«Oh. Solo di scrivere un libro che io stesso vorrei leggere. È semplice.

La maggior parte della letteratura contemporanea è deludente, poco interessante. Io vorrei scrivere quella che Henry James definiva a distinguished thing: qualcosa di raffinato, eccellente. Questa è la mia ambizione. Ci provo».

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