Prima di parlare alla pancia meglio sciacquarsi la bocca

Massimo Arcangeli a colpi di linguistica racconta un popolo di santi, navigatori e grandi imprecatori

Prima di parlare alla pancia meglio sciacquarsi la bocca

Tutti lì a parlare alla pancia del Paese o a parlare della pancia del Paese. Ma che lingua parla la pancia del Paese? E chi ascolta i suoi borborigmi? Se lo è chiesto l'italianista Massimo Arcangeli che insegna linguistica all'università di Cagliari. Il risultato è un saggio molto dotto, Sciacquati la bocca. Parole, gesti e segni dalla pancia degli italiani, appena pubblicato da il Saggiatore (pagg. 388, euro 22).

Prendendo atto che anche l'insulto è una forma di civiltà, Arcangeli fa una lunghissima immersione nella lingua italiana, sin dalle sue origini, per capire come è stata utilizzata la parolaccia. Ecco quindi che il libro parte con delle «storie esemplari di gesti offensivi». Si va dalle descrizioni un po' spinte di Leonardo (disegni di angeli priapeschi compresi) al famoso gesto dell'ombrello anch'esso di antichissima memoria e all'«impudicus digitus» che fa capolino negli antichi carmina romani e poi si ripresenta, ciclicamente, sino a fare la sua sulfurea comparsa persino nella Commedia di Dante.

Dei versi di Inferno XXV «Al fin delle sue parole il ladro/le mani alzò con amendue le fiche,/ gridando: Togli, Dio, ch'a te le squadro!» per altro Arcangeli da una spiegazione diversa da quella abituale di quel «le squadro» e ancor più blasfema.

Seguendo è tutto un fiorire di turgidi membri, una vera ossessione letteraria, resi con infinite metafore che spaziano dagli ortaggi agli insaccati passando per le armi bianche (brando, coltello, stocco, giannettone). Ovviamente, ma questo è scontato, i cataloghi terminologici migliori sono quelli di Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863). Quanto al contraltare del Lingam, la Yoni, altro che la triste Iolanda inventata dalla Littizzetto! Ci sono «finestrelle», «gattarole», «coniglio», «puzzola», «zibetto» e ovviamente la molto meno nobile «topa». La variatio propria della scrittura colta, così cara al Bembo, ha dato il meglio anche nell'ambito della scrittura a sud dell'ombelico. Ma questa è solo la parte più salace della lunga disamina di Arcangeli. Largo spazio è dato anche agli stereotipi razziali, nostri e altrui sugli italiani, e poi, ovviamente, anche alle infinite rivalità regionali (con inevitabili insulti) e alla lotta nord-sud (con inevitabili insulti al quadrato). Largo spazio anche al sessismo: dai cliché sul pettegolezzo, in cui eccelle il Goldoni, ai distinguo di Dante che vuol rivolgersi «non ad ogni donna, ma solamente a coloro che son gentili e che non sono pure femmine».

La parte più divertente del libro è però, probabilmente, quella più legata alla contemporaneità. Si va dall'invasione del politicamente corretto che invece di frenare le derive più pecorecce genera mostri. Come le varie proposte per sostituire la troppo maschilista fratellanza o le infinite diatribe scatenate dalla parola «negro». In generale però Arcangeli registra che tendenzialmente le campagne elettorali nell'Italia post unitaria si sono caratterizzate per essere: «divisive, aggressive, offensive». Tra la maieutica e l'eristica la politica sceglie nettamente la seconda. Ed una linea involutiva in questo senso ad Arcangeli appare chiara: «Sbrigliata la fantasia, svanite le paure e le angosce quotidiane, caduti tutti i freni inibitori, veniamo alla fine presi per mano come bambini: pronti, sotto la guida e protezione del nostro salvatore, a giocare, fantasticare, trasgredire insieme a lui, a credere senza esitazione al contenuto delle sue parole e ai fuochi d'artificio delle sue promesse, a lasciarci abbagliare dai suoi incantesimi verbali». E tutto questo in un mondo in cui la comunicazione diventa sempre più diretta grazie ai social ha effetti dirompenti. Insomma, il vecchio politichese che parlava impersonalmente alla ragione ci ha lasciato le penne. Il «progetto» lascia spazio al «contratto», «l'intenzione» lascia spazio a «volere». Il tweet trionfa e da corpo ad una antica intuizione di Quinto Tullio Cicerone, evocata da Arcangeli, e la invera: «Quamquam plurimum natura valet, tamen videtur in paucorum mensium negotio posse simulatio naturam vincere». Quel che siamo realmente vale moltissimo, e tuttavia l'apparenza, in una faccenda di pochi mesi, sembra contare di più.

Povero Quinto (fratello del più illustre e scafato Marco), pur abituato alle non proprio adamantine campagne elettorali romane, chissà come avrebbe reagito oggi che basta un «Vaffa» ad annientare qualunque ragionamento e dove fermare una fake news in rete è virtualmente impossibile.

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