Il pessimismo cosmico è figlio delle lacrime di "Architrenius"

Nell'opera duecentesca di Giovanni di Altavilla c'è un duro confronto fra l'uomo e la Natura. Che ricorda Leopardi...

Il pessimismo cosmico è figlio delle lacrime di "Architrenius"

Anche nel XII secolo uno spettro si aggirava per l'Europa. Ma era uno spettro che, diversamente da quello agitato da Karl Marx circa settecento anni dopo, non coalizzava contro di sé né i papi (che ne ignoravano l'esistenza, ma ai quali sarebbe stato simpatico, vista la sua predisposizione al monoteismo), né gli zar (che ancora non esistevano), né nessun altro. Al contrario, tale spettro godeva di buona stampa pur avendo allora, sia detto con tutto il rispetto, ben poca consistenza: in tanti ne parlavano senza sapere bene di che cosa parlassero.

Quello spettro si chiamava platonismo, e il principale think tank in cui se ne discuteva, non di rado accapigliandosi, lo ripetiamo, sulla base di poca materia prima (il commento al Timeo di Calcidio risalente al IV secolo e il sentito dire dei vari, pur autorevolissimi, Seneca, Apuleio, Aulo Gellio, Lattanzio etc fino ad arrivare a Boezio), era in Francia, a Chartres. Meglio, nella Scuola di Chartres, pressoché un unicum, proprio per il suo essere «scuola», nel panorama culturale del Medioevo. Inoltre, e qui sta la valenza letteraria della Scuola di Chartres, i platonismi erano due: a quello teoretico, razionale, figlio ed erede delle idee, si aggiungeva quello diffuso tramite la narratio fabulosa che ha origine nel V secolo con Macrobio e che si rinvigorisce con il metodo dell'integumentum, l'«adombramento», il mascheramento per metafora. Del resto, che cosa sono i miti platonici se non, prima di tutto, grandi invenzioni romanzesche? Ed ecco che assistiamo, negli anni in cui, come scrisse lo storico Michel Lemoine, «la scuola monastica regredisce a vantaggio della scuola cattedrale, in attesa della comparsa dell'università e dei collegi», al sorgere del razionalismo naturalista. Il beato Alano di Lilla (1125 circa - 1202), autore di De planctu naturae e Anticlaudianus, ne è considerato l'esponente più prestigioso, ma ne esiste un altro, anch'egli chartriano d'importazione, provenendo da Rouen.

È Giovanni di Altavilla (l'odierna Hauville-en-Roumois) del quale Carocci manda oggi nelle librerie la prima traduzione italiana di Architrenius, un poema in nove libri di esametri latini composto entro il 1185, l'unica sua opera nota (pagg. 408, euro 36, a cura di Lorenzo Carlucci e Laura Marino). Magister a Rouen, Giovanni parla formalmente la stessa lingua allegorica e didascalica di Alano, ma compie un'operazione opposta a quella del De planctu naturae: qui a piangere non è la natura che in Alano si rivolge alla divina Provvidenza lamentandosi per il caos della materia primordiale, bensì un piagnone di fatto e di nome, Architrenius, appunto, dal greco thrênos, canto funebre. Il quale, quando arriva al «faccia a faccia» con la Natura, le sferra legnate di un pessimismo cosmico tipicamente leopardiano, come spiega Laura Marino nell'Introduzione, citando il Dialogo della Natura e di un Islandese, una fra le tante perle incastonate nelle Operette morali, sulla scorta di un altro peso massimo come Lucrezio.

L'autore, quasi un Virgilio che fa da guida turistica fra i guai del mondo, usa il suo protetto Architrenius, descrivendolo come non più giovane, ma non ancora vecchio. E il lettore che pensasse al celebre «mezzo del cammin di nostra vita» penserebbe bene, perché anche questa, come quella di Dante, è una Commedia, in cui però Natura si rivela... di tutt'altra natura rispetto a Beatrice. Peraltro, un'anonima donna angelicata c'è anche qui, descritta con dovizia di particolari, alcuni dei quali decisamente sexy: «Concisa, breve, limata la tettina non empie, senile/ un abito lasco, castigata dimora negli anni/ puerili e rotondetta in un tenero grappolo/ germoglia e, ancora non puerpera, al latte che stilla/ sta chiusa ed eburnea circonda un solido nodo» (e non scendiamo più in basso...). La coppia Narratore-Protagonista, in un tour che tocca l'università di Parigi «orrida turba di logici», il Chiostro e la Corte, «il morbo della mitra e del trono», costellati dei peggiori vizi, Presunzione, Superbia, Cupidigia e compagnia peccando, fa appello agli antichi maestri che prendono parola per depotenziarli a lume di ragione.

Nume tutelare di Architrenius è Boezio con la sua Consolazione della filosofia («aetas boetiana» definiva Marie-Dominique Chenu il XII secolo), perché quello è (sarebbe) il piano di lavoro: trovare rifugio, nella prigione della vita, fra le braccia del pensiero più alto. Ma, dopo aver ascoltato «con bibule orecchie gli esperti consigli» dei big del passato, sia l'Autore, sia soprattutto il suo braccio armato Architrenius, una volta sorbita di malavoglia la lezione di astronomia ex cathedra della Natura, apparsa sul rettilineo finale con l'ingombrante figura di donnone tipo la Anita Ekberg del cartellone pubblicitario in Boccaccio 70 di Fellini, non ce la fanno più ed esplodono. Architrenius non esita a usare la parola «noverca», cioè matrigna, citando Cicerone tramite Agostino (Leopardi andrà giù ancora più pesante chiamandola «carnefice») e continua: «Non controllo - lo ammetto - il torrente dell'ira: di te/ con tua pace, io mi lamento, Natura. A te si prosterna/ l'apice di ogni maestà, e tu di traverso ci guardi/ sempre con occhio avaro, a nessuna dolcezza la chiusa/ mano sai aprire».

L'accusa di manicheismo è a un passo. E forse per questo Giovanni di Altavilla si ferma, sull'orlo del baratro.

Natura fa ad Architrenius un discorsetto del tipo: caro mio, mi sembri pesantemente stressato, hai bisogno di una donna, ti propongo Moderazione, che ne dici? Affare fatto. Quindi si celebrano, ovviamente senza il minimo sfarzo, le nozze. Ma qualcosa ci dice che non vissero né felici, né contenti.

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