È il sogno di qualsiasi uomo di teatro. Scovare nel fondo di qualche remoto cassetto il capolavoro sconosciuto d'un grande autore, e metterlo per la prima volta in scena. Ebbene: il regista Carlo Merlo, questo sogno sta per realizzarlo. Il metropolitano : opera estrema di Ettore Petrolini (compiuta pochi mesi prima della morte, nel 1936) non era finito - per la verità - nell'oblìo di alcun cassetto. Ma dopo la sua pubblicazione nel 1977, a cura della studiosa Annamaria Calò, curiosamente nessuno aveva pensato di verificare quanto del genio del suo autore vi fosse ancora riflesso. Perché della grandezza de Il metropolitano , Carlo Merlo, responsabile del clamoroso repechage (in prima nazionale venerdì al teatro del Palazzo dei Congressi dell'Eur in Roma, quindi il 10 e 20 prossimi al Festival Fringe di Edimburgo) è convintissimo. «Vedrete - assicura lui (attore, regista e già insegnante all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico)-: sarà la scoperta di un capolavoro. Per ben ottant'anni ignorato da tutti».
Semplicissima la trama: Socrate Patera (l'attore Sergio Bertini) esercita con bonomia la professione di vigile urbano, e replica con arguzia agli sfottò degli amici del bar. Un giorno, però, dovrà impegnarsi seriamente a contrastare il padre di Mario, fidanzato benestante della figlia Claudina, contrario al matrimonio dei due ragazzi.
«Non tragga in inganno l'elementarità del soggetto - avverte Merlo -. Secondo me Il metropolitano è superiore a tutti gli ultimi lavori di Petrolini; perfino al lodatissimo Chicchignola . E anche se ottant'anni dopo è divenuto, ormai, una commedia in costume, la sua attualità di denuncia dei pregiudizi sociali, della presunta superiorità d'una classe sull'altra, resta sorprendentemente fresca ed incisiva». Il postumo battesimo delle scene presentava, tuttavia, più di una difficoltà. «Innanzitutto il copione era incompleto. Mancavano otto pagine nel secondo atto - sparite chissà dove - e il finale del terzo sembrava incompiuto. Sulla base della miei studi dello stile petroliniano, ho scritto io le scene mancanti». Poi c'era il problema dell'interpretazione, sempre insidiosa quando un testo è legato a filo doppio alle caratteristiche del suo autore - attore. «Come si deve recitare Petrolini? Come lo recitava lui stesso? O in maniera del tutto autonoma? È lo stesso problema posto dalle commedie di Eduardo. Ma noi abbiamo rifiutato ogni tentativo d'imitazione. Non solo perché sarebbe risultata improponibile (imitare Petrolini? Ridicolo - ndr ) ma soprattutto perché inutile. Questo lavoro si regge benissimo da sé».
Il fatto che sia scritto in italiano, poi, ne aumenta la fruibilità: «Nonostante le radici romane del suo genio, infatti, Petrolini rinunciava spesso al dialetto, proprio per dare un respiro universale alle proprie opere». Una prova evidente dell'impronta lasciata dal grande interprete romano si ritrova, ancora oggi, nei suoi innumerevoli figli illegittimi. «Pensate alla canzone. Chi fu a lanciare Nannì , simbolo della romanità nel mondo? E chi scrisse Tanto pe' cantà , con cui, negli anni 70, Nino Manfredi spopolò a Sanremo?». Il teatro si scrive sull'acqua, certo. Nessuno può più ricordare, oggi, come recitava Eleonora Duse. «Eppure, del modo di recitare di Petrolini, abbiamo ancora tante tracce viventi: Gigi Proietti, lo stesso Manfredi, perfino il primo Alberto Sordi. Anche se - mi duole dirlo - nessuno di costoro è mai riuscito a eguagliarlo».
C'è infine la dimensione autorale. Se un'angina pectoris non se lo fosse portato via ad appena 52 anni, secondo Merlo, «Petrolini sarebbe diventato grande come Pirandello. Noi siamo abituati a ricordarlo attore impareggiabile, celebrato perfino dai francesi che lo vollero interprete di Moliére nell'inviolabile tempio della Comédie Francaise. Ma fu anche straordinario autore. I suoi testi venivano applauditi in tutta Europa: Londra, Berlino, Vienna». Non si trattava solo di battute folgoranti (celebre quella con cui commentò il conferimento di una medaglia da parte di Mussolini: «Me ne fregio!»): «Era proprio lo stile della sua comicità, stralunata, surreale, modernissima, a fare sensazione. Petrolini è arrivato prima di Beckett, prima di Jonesco.
È stato assurdo prima del teatro dell'assurdo". E fino alla fine. Almeno a giudicare dalla battuta con cui, sul letto di morte, accolse il medico che diceva di trovarlo migliorato: "So' contento - sospirò - almeno moro guarito».
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