Artista a due livelli. Il primo lato di Brunori è quello del cantautore che ha appena pubblicato un gran disco, Cip!, il suo quinto, e che a marzo debutterà in tour nei palazzetti. Il secondo è quello del battutista, dell'intrattenitore che affianca citazioni di Eraclito a giocose considerazioni sulla n'duia. Uno spasso, sul serio.
I due Brunori si sono presentati insieme per incontrare i fan e la stampa alla Casa dell'Artista di Milano in una delle conferenze più divertenti degli ultimi tempi. La forza di Dario Brunori, alias Brunori Sas, calabrese di 42 anni, è di essere un «metacantautore», un cantautore che va oltre, gioca sui luoghi comuni dell'«impegno» ma mantiene un impegno costante nella ricerca e nella scrittura. È armonioso, sceglie e accosta le parole non solo per significato ma anche per suono e non a caso è uno dei pochi a esser passato dai localini di periferia alle playlist radiofoniche senza aver tradito se stesso: «Sono felice che ci sia stato un percorso e che ora tutto stia arrivando nel momento giusto. Certo, se lo avessi saputo, mi sarei risparmiato quattro o cinque anni di cantine», scherza prima di suonare con la chitarra acustica il suo singolo Al di là dell'amore.
I primi versi sono «Questi parlano come mangiano e infatti mangiano molto male».
«Nel disco ho cercato di non parlare in modo diretto di stretta attualità o di argomenti sociali. Di certo qui mi riferisco soprattutto ai toni di tante discussioni. C'è una generale e diffusa violenza che fa molto male».
Il riferimento è al dizionario dei social network?
«Non solo».
E invece il dizionario del disco qual è?
«Uno dei temi è la relazione tra il bene e il male. Mi interessa il rapporto tra gli uomini e l'universo che ci ospita».
Quindi?
«Quando eravamo ragazzi, eravamo attirati, quasi affascinati, dalla macchina del tempo di Ritorno al Futuro. Ora siamo nel tempo della macchina. E, per un calabrese ozioso come me, un procrastinatore compulsivo in quanto narciso, certi ritmi sono difficili da sostenere. E chiedete ai miei discografici o all'ufficio stampa...».
Perché un titolo come Cip?
«Ho cercato di prestare molta attenzione al canto, al suono della voce. Mi è piaciuto concentrarmi più al come che al cosa. Per citare Eraclito, cerco di esplorare l'armonia degli opposti».
Il Brunori di oggi è forse l'opposto di quello di Vol. 1, uscito dieci anni fa.
«In realtà non ho mai seguito in maniera precisa l'obiettivo di diventare famoso perciò non c'è molta differenza tra Dario e Brunori. E, oltretutto, non vivo con il patema d'animo di perdere la notorietà. Più che altro, seguo me stesso».
Cioè?
«Questo disco, ad esempio, è il quinto che pubblico ma potrebbe essere il primo bis. Ho ritrovato lo spirito di allora. Non a caso ci sono brani come Mio fratello Alessandro, sul fatto di prendersi cura degli altri, o Capita così sull'imprevedibilità della vita e di quanto ti possa spiazzare».
In tre brani c'è la firma anche di Antonio Di Martino, vero talento non abbastanza valorizzato.
«Sia maledetto chi non lo conosce (ride - ndr). Lui mi ha sempre influenzato, gli ho anche prodotto un disco e trovo che sia bravissimo».
In ogni caso, Cip! è un disco suonato, non soltanto cantato. Insomma c'è molta attenzione alla partitura e agli arrangiamenti.
«Forse dipende dal fatto che ho cercato di scrivere in modo più poetico e meno prosaico».
Un obiettivo molto alto.
«Come c'è scritto anche nella cartella stampa, so che sembra un po' new age da autogrill, ma sono andato comunque dritto, con una rustichella in mano».
Brunori è il cantautore 3.0. Cosa pensa dei talent show?
«Non ho nulla contro. Mi fa solo paura che possano far perdere a qualche artista la propria peculiarità solo perché, in quel momento, non è abbastanza pop».
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