La politica estera del Duce? Alla nascita era democratica

Fra il 1922 e il '26 Mussolini rimase ancorato alle linee dei governi pre-fascisti. Tutto cambiò dopo Dino Grandi

La politica estera del Duce? Alla nascita era democratica

All'inizio degli anni Trenta, quando già si festeggiava il decennale della «rivoluzione fascista», apparve in Francia un volume dal titolo Mussolini diplomate. Lo aveva scritto Gaetano Salvemini, all'epoca esule a Parigi. Non era un saggio storico in senso proprio, ma un pamphlet politico. Vi era, tuttavia, delineata un'interpretazione «unitaria» della politica estera fascista come risultato di scelte incoerenti di un dittatore alla ricerca di «successi immediati, poco importa se reali o apparenti, effimeri o duraturi, che gli servissero ad abbacinare le cosiddette masse, cioè permettessero ai giornali da lui assoldati in Italia e all'estero di cantare le sue glorie».

In realtà la politica estera del fascismo fu assai più complessa e articolata di quanto non lascino intendere sia il discorso di Salvemini sia le elucubrazioni di quegli storici che, pur muovendo da altre premesse, hanno cercato di fornirne una lettura interpretativa pur sempre «unitaria» presentandola, per esempio, come intrinsecamente bellicista o proiettata verso l'alleanza con la Germania. A partire dalla metà degli anni Sessanta, Renzo De Felice dimostrò come, invece, essa dovesse essere studiata al di fuori di schemi precostituiti e di visioni «unitarie» e dovesse, quanto meno, essere divisa in fasi diverse collegabili al contesto internazionale ovvero ai mutamenti di prospettiva politica interna. Non era, in fondo, una posizione nuova se si pensa che persino un bel libro, scritto subito dopo la caduta del regime, da Mario Luciolli, Mussolini e l'Europa. La politica estera del fascismo (1945), si era mosso, al netto della polemica anti-tedesca, su quella linea interpretativa. Peraltro, il discorso di De Felice ebbe un impatto storiografico notevole perché rappresentava la trasposizione, sul terreno dello studio della politica estera, del suo approccio metodologico allo studio del fascismo in generale.

La necessità di studiare l'attività internazionale del fascismo al di fuori di quegli schemi «unitari» ideologici che finiscono per sostenere la fatalità di un «destino comune» fra le dittature è riaffermata, sia pure implicitamente, dal recente lavoro di Francesco Lefebvre d'Ovidio intitolato L'Italia e il sistema internazionale. Dalla formazione del governo Mussolini alla grande depressione (Edizioni di Storia e Letteratura, 2 voll., pagg. LXII-1158, euro 98), dedicato al periodo compreso fra il 1922 e il 1929, quando cioè Mussolini ebbe la responsabilità formale e diretta del Ministero degli Affari Esteri. L'autore osserva che in questa fase, malgrado il cumulo delle cariche da parte di Mussolini e la dittatura personale già avviata, la politica estera del governo non fu «opera individuale», ma piuttosto «la risultante dell'interazione di un insieme di forze politiche, di gruppi di pressione e dell'organizzazione burocratica».

Si tratta di una notazione corretta perché Mussolini il quale non aveva in realtà un vero e proprio programma di politica estera si affidò, di fatto, a un validissimo collaboratore, il segretario generale del ministero degli Esteri Salvatore Contarini, uomo di tradizione risorgimentale e liberale. Ciò spiega perché, durante i primi anni di governo fascista, non si registrarono, se non nello stile, scostamenti significativi dalle linee direttrici della politica estera dei governi dell'Italia pre-fascista. In fondo, gran parte dei trattati e delle convenzioni stipulate tra l'ottobre del 1922 ed il 1926, si richiamavano a direttrici tradizionali come il tentativo di inserimento nella politica franco-inglese di equilibrio europeo e lo sviluppo di buoni rapporti con la Gran Bretagna.

La collaborazione fra Mussolini e Contarini rappresentò, dunque, il cardine della politica estera italiana fino al maggio del 1925, quando Dino Grandi divenne sottosegretario agli Esteri e quando, proprio a seguito di tale nomina, iniziò l'occupazione del ministero da parte di personaggi marcatamente fascisti. La nomina di Grandi nel 1925, del resto, venne fatta più per tacitare gli intransigenti del Pnf che per cambiar rotta. Mussolini condivideva talune suggestioni espansionistiche del fascismo intransigente e del nazionalismo (per esempio l'idea di una proiezione mediterranea dell'Italia) o certe ostilità dettate da motivi ideologici o pragmatici (come l'ossessione anti-jugoslava). Tuttavia, anteponeva l'intenzione di accreditare, a livello internazionale, l'immagine di una Italia grande potenza, aliena dall'apparire un elemento perturbatore dell'equilibrio europeo e aveva pertanto interesse ad appoggiarsi a uomini in grado di destreggiarsi fra le insidie della diplomazia internazionale.

La verità è che la politica estera italiana vale la pena di ribadirlo fu, per diversi anni, segnata dalla collaborazione di Mussolini con la «carriera» diplomatica. Una collaborazione per certi versi strumentale e per altri versi obbligata, poiché le capacità manovriere di Mussolini avevano buon gioco nella realtà italiana per diversi motivi, non esclusa la conoscenza umorale della psicologia dei connazionali, ma rappresentavano una incognita in un terreno dove i termini dello scontro e del confronto non erano assimilabili a quelli della realtà nazionale.

Lo studio di Lefebre d'Ovidio si ferma al 1929, quando Mussolini affidò la titolarità degli Esteri a Dino Grandi portatore di una visione dell'attività diplomatica nota come «politica del peso determinante»: una attività svincolata da pastoie ideologiche, tesa a cogliere ogni opportunità utile per conseguire il massimo vantaggio. Una visione che, mutatis mutandis, collima con la tradizione della pendolarità della politica estera italiana analizzata da Riccardo Petrignani nel volume su Neutralità e alleanza. Le scelte di politica estera dell'Italia dopo l'Unità (1987). Grandi suggeriva pragmaticamente una politica di pace, disarmo, collaborazione con la Società delle Nazioni, conciliazione con le potenze democratiche, che assicurasse all'Italia, nei tempi lunghi, il ruolo di arbitro dello status quo europeo. Per questo credeva necessario evitare un conflitto armato che avrebbe implicato una scelta di campo e quindi l'obbligo di accodarsi a una potenza o a un gruppo di potenze: in una situazione pacifica l'Italia avrebbe potuto fungere da ago della bilancia e far sentire il suo «peso determinante» nelle controversie internazionali.

Pochi anni dopo, nel 1932, Mussolini decise di allontanare Grandi, riassunse la responsabilità degli Esteri e lo fece proprio per

rettificare la politica di collaborazione internazionale sino ad allora seguita. Fu una svolta che dimostra come i tentativi di lettura «unitaria» delle vicende della politica estera del fascismo siano storicamente fuorvianti.

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