Osannato e detestato, applaudito e fischiato, amato e odiato. E' il regista italiano d'opera più richiesto (e criticato) al mondo. Da Scorzè, provincia di Venezia, la sua fama è volata fino a Londra, Madrid, Tokyo, Vienna, Parigi, Berlino, Ginevra; unico italiano invitato tre volte a Salisburgo (più di Strehler e Ronconi) ha impegni fino al 2020. È Damiano Michieletto: l'enfant terrible, ormai quarantenne, diventato la delizia dei botteghini e il bau-bau dei tradizionalisti, per aver ambientato la Cenerentola di Rossini in una tavola calda, il Così fan tutte mozartiano in un hotel per scambisti, la pucciniana Bohème fra le piantine di Google Maps e il Falstaff di Verdi nell'omonima Casa di Riposo per Musicisti. E che l'8 agosto farà l'atteso "ritorno a casa" a Pesaro, inaugurando con La donna del lago il Rossini Opera Festival che lo lanciò nel 2007.
Lei ormai è un "caso". Non c'è suo spettacolo che non susciti clamore.
"Ad ogni nuova produzione cerco di fare tabula rasa delle precedenti. Di ripartire con umiltà. Non voglio cadere nel cliché, farmi il verso, divenire l'imitatore di me stesso. Ma rimettermi ogni volta in discussione".
Come ha immaginato, dunque, questa sua Donna del Lago?
"Sono partito dal titolo, misterioso, evocativo della natura malinconica e romantica tipica di Walter Scott. Allora, d'intesa col direttore d'orchestra Michele Mariotti, ho lavorato sulla nostalgia: tutta la storia sarà un flash back di Elena e Duglas, i quali da vecchi (due figuranti che 'doppieranno' i cantanti in scena) ricorderanno gli avvenimenti. E la scena sarà una stanza invasa dall'erba e dall'acqua: La stanza del ricordo, appunto, che lo scorrere del tempo avrà nel frattempo distrutto".
A cosa mira con le sue regie, spesso clamorose, talvolta scandalose, sempre sorprendenti?
"Allo stupore. Perché si va a teatro? Per fremere nell'attesa che il sipario si apra, chiedendosi che novità nasconde. Altrimenti perché chiamarle 'nuove produzioni'? Tanto varrebbe ripetere solo il già visto".
L'accusano di essere un narcisista.
"L'opera è fatta di musica e teatro. Due cose fuse fra loro, non separate. Non si diceva 'recitar cantando'? Oltre ad ascoltare, il pubblico deve saper guardare. Altrimenti l'opera si riduce solo ad un museo di morti".
E se alla fine il pubblico fa buuuuh! e la critica stronca?
"La colpa è mia. Non sono riuscito a spiegarmi. Oppure ho avuto l'idea sbagliata: non tutte le ciambelle riescono col buco. I fischi non fanno piacere, io non so abituarmici. Ma li accetto: fanno parte del gioco".
Che valore ha per lei la tradizione? Che ne pensa di registi come Zeffirelli o Strehler?
"La tradizione è un trampolino, da cui partire con nuovo slancio. Zeffirelli e Strehler sono maestri che ammiro proprio perché sono stati innovatori. Non si accontentavano del 'già fatto' nemmeno loro. Tradizionale non vuol dire ovvio. Chi viene ai miei spettacoli solo per vedere ciò che già conosce, resterà deluso".
Ha mai incontrato direttori o cantanti avversi a questo suo modo di concepire l'opera?
"Mai. Al contrario: nella Luisa Miller di Zurigo un glorioso esponente della 'vecchia scuola' come Leo Nucci mi ha assecondato in tutto. Oggi la regia nell'opera è talmente importante che i giovani cantanti sono felici di crescere come attori. In una cosa sola rimangono alle vecchie abitudini: arrivano in ritardo alle prove".
La strada del clamore è pericolosa: da lei ci si aspetta sempre di più. Non rimarrà intrappolato?
"Conto di aumentare le regie di prosa. E mi piacerebbe dirigere un musical. Lo so: non è considerato un genere 'alto'. Ma sono i critici snob, a ritenere 'alto' solo ciò che è per pochi. L'opera non nasce forse popolare?".
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