Amo i perduti, i solitari, gli esclusi. Per questo andai a trovarlo. San Biagio della Cima, nei recessi di Ventimiglia, a uno sputo dalla Francia. Aveva scritto romanzi simili a epigrafi, di bagliori e fughe pietrificate, L'angelo di Avrigue, Vento largo. Gli ulivi sembravano le ali degli angeli della sera, invecchiate di pietà. L'aria belava. Il dialogo durò mezz'ora. Francesco Biamonti sarebbe morto l'anno dopo, nel 2001. Mi disse che si ispirava ai quadri di Cézanne. E che il massimo scrittore vivente, l'unico che leggesse, era Julien Gracq.
Scesi da quella solitudine al mondo. Non conoscevo Gracq, espulso dai cataloghi delle grandi case editrici italiane. Mi informai. Classe 1910, vita modesta, da schivo prof di un liceo parigino, amicizia con André Breton, schifo verso Jean-Paul Sartre e l'esistenzialismo in toto, schifo verso il nouveau roman («assurdi romanzi di zinco»), schifo verso l'intelligenza parigina, «rete di pettegolezzi, mercanteggiamenti, speculazioni, aggiotaggi, calunnia», amore viscerale per Edgar Allan Poe, Stendhal e Ernst Jünger («darei quasi tutta la letteratura degli ultimi anni per un solo libro di Jünger, Sulle scogliere di marmo»). Interessante. In una bancarella becco La letteratura senza vergogna, un livido e virtuoso pamphlet contro la letteratura del tempo. Gracq gracchia contro tutti: contro «la richiesta assillante di grandi scrittori» che paiono «usciti da una serra di coltivazioni forzate», simili a «sfiancati ronzini»; contro i critici letterari proni al potere editoriale, «buoni soltanto a sproloquiare alla radio o a infilarsi nella giuria di qualche premio letterario»; contro la stampa, «berciare confuso di altoparlanti in mezzo al frastuono di un luna-park»; contro il pubblico beota che subisce chili di vomito librario, «vi è oggi un appiattimento delle reazioni estetiche su quelle politiche».
Il pamphlet è pubblico nel 1950. L'anno dopo Gracq pubblica, come consuetudine per il piccolo editore José Corti, il suo capolavoro, La riva delle Sirti, «il più straordinario poema in prosa della letteratura francese» (Henri Mondor). «Appartengo a una delle più antiche famiglie di Orsenna»: così attacca il romanzo, dalla scrittura ipnotica e dalla trama scheletrica, che pare un effetto Morgana. Un tizio, quello che scrive, viene inviato dalla Signoria di Orsenna, specie di fittizia Venezia che «vive come all'ombra di una gloria che le hanno acquistata nei secoli andati i successi militari contro gli Infedeli e i favolosi benefici dei suoi commerci con l'Oriente», presso «la provincia delle Sirti, perduta agli estremi confini del Sud, un po' l'ultima Tule dei territori di Orsenna». Lì, in catastrofica immobilità, l'eroe deve pattugliare il fronte perché da un momento all'altro potrebbe scattare il conflitto, epico e definitivo, costantemente rimandato, con il Farghestan, terra ignota, fagocitata dalla favola («il Farghetsan aveva elevato davanti a me delle barriere scogliose di sogno»). Il libro è una meraviglia: pare scritto, su lamina d'oro, da un geografo del Trecento, oppure da un cosmonauta atterrato su un pianeta dove scorrono torrenti di metano, tra diecimila anni. È un libro senza tempo, un classico. Che fece scalpore per due cose. Intanto, per le suadenti accuse, volte a Gracq, di aver mimato la trama del Deserto dei tartari, pubblicato dieci anni prima. Fu Buzzati, però, a difendere l'austero scrittore francese, «l'atmosfera è completamente differente, sia nelle caratteristiche fisiche sia nel sentimento che si propone di suscitare».
Il secondo scandalo accadde al Goncourt. Il premio andò a Gracq. Lui, coerente alle proprie idee, oppose il gran rifiuto. Mondadori nasò la speculazione editoriale e fece tradurre in direttissima il romanzo da Mario Bonfantini, per la collana «Medusa». Nel 1952 il libro era già in Italia. Ma gli italiani non erano pronti a un romanzo così raffinato, atipico, australe. L'editore Guida ristampò tutto nel 1990; oggi, esaltandolo come «un romanzo perfetto pressoché ignorato dalle lettere italiane», ci riprova L'orma, in confezione mirabile (pagg. 334, euro 21).
Gracq se ne è andato nel 2007, dieci anni fa, a 97 anni, le opere già belle stipate nella «Pléiade» Gallimard. Se avete pazienza altri dieci anni ne vedremo di bellissime. Gracq ha decretato che nel 2027 la Bibliothèque nationale de France divulghi i suoi inediti. Si tratta di migliaia di pagine. Una abbuffata di meraviglie.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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