Quando i sogni erano in bianco e nero. Perché sarà pure che vero che nel ricordo tutto si colora; ma certo un sogno come Studio uno, leggendario show del sabato sera Rai dal 1961 al 1966, generazioni d'italiani ancora lo fanno. E ha buon gioco, la Rai, ad «essere orgogliosa di presentare» (come recita il promo) una fiction come C'era una volta Studio Uno. A rievocare cioè, attraverso la favola di tre ragazze che lavorano dietro le quinte del più celebrato e sfavillante varietà anni '60 (in onda il 13 e il 14 febbraio) tutto quel mondo che ancora abita la nostra memoria e fatalmente - ne alimenta la nostalgia. «L'abbiamo voluto resuscitare con la stessa, amorosa cura del dettaglio che distinse il rigore dei suoi creatori: Ettore Bernabei, grande direttore Rai, e Antonello Falqui, geniale regista» racconta Luca, figlio di Ettore e produttore Lux. «Così abbiamo rifatto le scenografie originali, che essenziali ed elegantissime facevano piazza pulita dei soliti vecchi fondali teatrali; i costumi che, in folgoranti geometrie bianche e nere, sostituivano le solite penne e pennacchi; perfino le coreografie del mitico Don Lurio, deliziosi esempi di estro ed inventiva».
Dal Museo della Rai di Torino sono state prelevate telecamere, microfoni e «giraffe» d'epoca, «che con straordinaria modernità Falqui includeva nell'inquadratura, svelando così la magia dello show»; mentre a popolare i sogni delle tre protagoniste impersonate dall'impiegata del Servizio Opinioni Alessandra Mastronardi, dalla ballerina Giusy Buscemi e dalla sarta Diana Del Bufalo;- sfrecciano in brevi flash alcune icone d'epoca: appare Mina (solo di spalle), appare Don Lurio (ma senza il proverbiale slang italiota); appaiono Falqui interpretato da Edoardo Pesce («Ma io ero più magro, e non fumavo tanto», pare abbia commentato il Falqui autentico) e lo stesso Bernabei, rifatto da Simone Colombari; «che abbiamo scelto perché toscanaccio informa Luca - ma senza somiglianze da museo delle cere».
Matilde Bernabei, che Studio Uno lo sbirciava nascosta dietro le poltrone dei grandi, «perché allora si andava a nanna dopo Carosello anche di sabato sera», fu condotta dal padre alle prove. «C'era Mina, che l'anno dopo fu sostituita con Rita Pavone perché aveva avuto un figlio fuori del matrimonio. C'erano le Kessler, che Falqui andò a scoprire a Parigi, e che esibivano le gambe più belle del mondo, ma rigorosamente coperte da fitte calzamaglie nere. Lavoravano 10-12 ore al giorno. Il clima era teso, allegro, ribollente. Ma anche combattivo: papà dovette sostenere lotte tremende, all'interno dell'azienda, per imporre ai più parrucconi uno show così moderno, che rivoluzionava il genere sprovincializzandolo».
Che senso può avere raccontare al pubblico di oggi la tv e quindi la società - di allora? La Bernabei non ha dubbi: «Dimostra che lavorando sodo, con competenza e al servizio della qualità, qualsiasi magia può diventare reale». «La stessa formula C'era una volta, inserita nel titolo, introduce al mito commenta la direttrice della fiction Rai, Andreatta - E Studio Uno è stato un mito televisivo. Raccontarlo significa raccontare anche lo sviluppo del nostro Paese». Luca Bernabei cita Falqui: «ll varietà non ha funzione culturale. Ma può stimolare senso critico e buon gusto. Ecco: con questa miniserie a noi basta recuperare un po' di quel buon gusto». Ma non è proprio il confronto tra la misurata eleganza di cinquantasei anni fa, a far impallidire lo sfrontato becerume attuale? «Credo che gli show Rai di oggi - quelli di Fiorello, di Mika, di Proietti - abbiano in comune con Studio Uno il talento, la qualità della scrittura, la cura del dettaglio, il coraggio dell'innovazione», asserisce la Andreatta. Infine il pubblico. Quale età media potrà avere il telespettatore cui si racconta un mito di mezzo secolo fa? «Noi produciamo per un canale generalista ragiona Luca Bernabei -.
Puntiamo alla famiglia intera; ad unirla tutta sul divano, per seguire lo stesso programma, piuttosto che vederla divisa ciascuno nella propria stanza. Puntiamo a far si che il Da-da-umpa, insomma, diventi il nostro La La Land».
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