Un saggio "definitivo" svela i segreti dell'eccidio di Cefalonia

Aga Rossi ricostruisce le vicende della Acqui depurandole dalla retorica "resistenziale"

Un saggio "definitivo" svela i segreti dell'eccidio di Cefalonia

La notizia della firma dell'armistizio giunse a Cefalonia ai militari della divisione di fanteria Acqui, comandati dal generale Antonio Gandin, nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943 grazie a una intercettazione della radio delle Nazioni Unite. Fu accolta con sentimenti contrastanti che viravano dallo stupore al dispiacere per la resa e, quindi, per la sconfitta, fino alla gioia legata all'illusione che la guerra fosse finita. Dopo qualche giorno di indecisioni sull'atteggiamento da assumere consegnare le armi ai tedeschi o rifiutarsi e resistere all'ultimatum dell'ex alleato i militari della Acqui furono impegnati, a partire dal 15 settembre, in furiosi combattimenti che si conclusero con la vittoria tedesca. E, soprattutto, con l'eccidio della divisione, una vendetta sanguinosa destinata a fissarsi nella memoria collettiva come uno degli episodi più tragici del Secondo conflitto mondiale. A Cefalonia e a Corfù, subito dopo la resa, vennero trucidati migliaia di ufficiali e soldati il numero esatto è controverso senza alcun processo e in aperta violazione di ogni norma di diritto nazionale o internazionale. Fu una strage pianificata e del tutto ingiustificata voluta da Hitler come vendetta per il «tradimento» italiano. L'enormità e la brutalità dell'eccidio, perpetrato al di fuori di ogni convenzione internazionale, furono riconosciute al processo di Norimberga dove il generale Telford Taylor, pubblico accusatore, dichiarò: «Questa strage deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli. Questi uomini indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a considerazione umana e a trattamento cavalleresco».

Elena Aga Rossi ha dedicato un volume dal titolo Cefalonia. La resistenza, l'eccidio, il mito (Il Mulino, pagg. 256, Euro 22) proprio alla ricostruzione delle vicende delle quali fu protagonista la Acqui, ma anche, e soprattutto, al tentativo di spiegare i motivi per i quali, attorno al sacrificio dei militari italiani, sia stata creata, attraverso aggiustamenti e falsificazioni, una «memoria divisa». È un volume documentato e importante, per molti versi definitivo, che resterà, per la ricchezza del materiale e la finezza e l'equilibrio dell'indagine, un punto fermo nella storiografia.

La «mitologizzazione» dei fatti di Cefalonia, come esempio paradigmatico di «uso pubblico della storia», cominciò presto quando, già nell'ultimo scorcio del 1945, Ferruccio Parri, prima, e Alcide De Gasperi, poi, celebrarono l'episodio come prima manifestazione di «resistenza partigiana». Ciò avvenne perché, come osserva l'Aga Rossi, quell'episodio di resistenza ai tedeschi, nel particolare momento storico che si stava attraversando, poteva essere valorizzato dal punto di vista politico: «poteva servire a riscattare, sia per fini interni sia sul piano della legittimazione internazionale, l'immagine di un Paese allo sbando che, per il modo in cui era avvenuta la resa, era stata prevalente fino a quel momento». Così, da più parti, si cominciò ad avallare l'idea che la divisione Acqui fosse assimilabile a una «formazione partigiana».

La ricostruzione in dettaglio dei fatti di Cefalonia sulla base di materiale documentario, oltre che memorialistico, ha consentito ad Aga Rossi di mettere in discussione, senza peraltro diminuire né il valore sacrificale dell'eccidio né la sua portata storica, la vulgata propria della letteratura e della pubblicistica della sinistra filo-resistenziale. In questa ottica, alla studiosa gli episodi di ribellione o sedizione e il «referendum» stesso fra i militari all'origine della decisione di combattere i tedeschi non appaiono affatto come un «gesto di eroismo resistenziale» come, in seguito uno dei protagonisti, l'allora tenente Renzo Apollonio, avversario del generale Gandin, avrebbe cercato di avallare per presentare quello che accadde a Cefalonia come una sorta di «atto primo» della rifondazione del Paese.

In realtà, tra i militari di stanza a Cefalonia e a Corfù, ve ne erano molti che non pensavano affatto a una discontinuità storico-istituzionale, quasi un nuovo inizio, della storia italiana post-fascista, ma, fedeli al giuramento prestato, guardavano alla monarchia come alla istituzione che avrebbe dovuto guidare e gestire la ricostruzione del Paese. Peraltro tra le molle che spinsero i militari a non cedere le armi e a imbracciarle contro i tedeschi non vi erano tanto «motivazioni antifasciste», quanto piuttosto ragioni diverse e concorrenti quali il senso della dignità e dell'onore, la stanchezza della guerra, la frustrazione e il desiderio di tornare a casa. È sintomatica, in proposito, la testimonianza di un reduce riportata dall'autrice: «è ancora vivo in noi il senso del dovere e dell'obbedienza e solo per questo abbiamo imbracciato le armi contro i tedeschi, come d'altra parte le avremmo imbracciate contro gli alleati se ci fosse stato ordinato. Quale interesse possiamo avere noi ad affiancarci ai tedeschi o agli alleati quando è stato firmato un armistizio senza condizioni, che ci umilia e ci avvilisce? In noi tutti manca la volontà di combattere una guerra perduta ed è vivo solo il desiderio di tornare al più presto in Patria». E, uno dei promotori della resistenza ai tedeschi, il capitano Amos Pampaloni, di convinzioni antifasciste, avrebbe confermato in una delle sue ultime interviste: «Noi pensavamo che cedendo le armi diventavamo prigionieri. E invece noi, con l'armistizio, volevamo tornare in Italia. E questo è il concetto principale». C'era, pure, nei soldati della divisione Acqui, con molta probabilità, la convinzione che gli anglo-americani, dopo lo sbarco a Salerno, sarebbero intervenuti nelle isole Ionie e avrebbero dato man forte contro i tedeschi. Ciò non avvenne anche perché gli alleati, impegnati nell'azione di consolidamento delle loro posizioni nell'Italia meridionale, sopravvalutarono l'effettiva capacità di resistenza delle truppe italiane. E non mostrarono, dopo tutto, un vero interesse ad «appoggiare» o «incoraggiare» più di tanto la resistenza italiana in vista delle decisioni postbelliche sull'assetto territoriale di quelle zone. In un certo senso, come emerge dal bel lavoro di Elena Aga Rossi, si potrebbe parlare anche di responsabilità sia del governo Badoglio per gli ordini impartiti di resistere sia degli alleati per il loro cinismo.

L'eccidio di Cefalonia, che secondo le stime di Elena Aga Rossi comportò il sacrificio di oltre 2000 italiani morti in combattimento o fucilati dopo la resa, fu il più brutale e imponente massacro compiuto dai tedeschi nei confronti degli italiani.

E questo fatto, combinato col momento nel quale esso fu perpetrato, spiega perché esso sia diventato un vero e proprio «mito» funzionale alla «ragion politica». Un «mito» che Elena Aga Rossi, liberandolo dalle pulsioni ideologiche, ha riportato sul terreno concreto della storia. Rendendo, in tal modo, giusto omaggio ai martiri.

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