Secondo la riassuntiva definizione di Alberto Zedda, con Semiramide Rossini, pur non abbandonando i Campi Elisi del belcantismo, indica il futuro: «la sontuosa scrittura strumentale dialogante con il canto; l'energica irruenza di un procedere ritmico coinvolgente e la potenza di immagini metaforiche richiamanti l'oscurità dell'inconscio».
Allestire, come ha fatto il Rossini Opera Festival in apertura della sua quarantesima edizione, quest'opera mastodontica (due ore e venti minuti il primo atto e un'ora e mezza il secondo), è dunque operazione meritevole della più alta considerazione. Se poi a questo aggiungiamo la cura con cui sono stati scelti i nove personaggi del melodramma tragico di Gaetano Rossi e Gioachino Rossini, il bilancio è già molto positivo. Anche quest'anno la scoperta più bella è venuta dalle voci: il contralto Varduhi Abrahamyan, interprete dell'impervio ruolo en travesti del generale Arsace. Voce rara: autentico timbro contraltile, terso in tutto l'arco del registro, senza sbavature nelle agilità, che canta con la destrezza di un soprano. La sua prova oscura anche quella di insigni colleghe che di recente si sono misurate nel complesso ruolo. Perfino l'eccellente Salome Jicia, che interpretava il ruolo del titolo, è rimasta in posizione ancillare davanti alla prestazione prepotente e festeggiatissima della Abrahamyan. Si è difeso con onore Nahuel Di Pierro nel ruolo del malefico satrapo Assur, al quale Rossini affida molte scene importanti, fra le quali spicca la straordinaria follia prima del finale dell'opera, un vero incunabolo di analoghe situazioni per i futuri grandi baritoni verdiani (Nabucco e Macbeth). Molto applaudito il tenore Antonino Siragusa, soprattutto per i suoi sovracuti ficcanti nel poco fascinoso ruolo di Idreno (un tempo molto tagliato). Gli altri due bassi erano all'altezza del ruolo: lo ieratico Carlo Cigni (Oroe) e Sergey Artamonov, che dava la voce allo spettro del re Nino, assassinato da Assur su istigazione della moglie Semiramide.
Altro vincitore di serata per il pubblico del Festival è stato il direttore Michele Mariotti. L'enfant du pays ha governato la fantaBabilonia rossiniana con composta precisione (la mano sinistra è un calco di quella di Claudio Abbado), dando risalto alle stupende introduzioni strumentali, ai maestosi inni corali (affidati ai volenterosi coristi del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno), ai decisivi recitativi accompagnati.
La messa in scena del regista Graham Vick era un vero rebus, un puzzle di elementi compositi: Oroe e i Magi vestiti da fachiri indiani; Assur e i suoi, agenti della Cia; Idreno e Azema, sposi in stile Bollywood. Il tutto dominato dagli occhi e dalle rughe di un vecchio, il re Nino, assassinato nell'antefatto. C'erano però continue allusioni all'infanzia di Arsace e alla maternità «negata» di Semiramide, attraverso un Ted-peluche gigante e mammine coriste con la parrucca di Raffaella Carrà e il cicciobello cullante, che diventavano gratuite, se non fastidiose.
E disegni infantili dietro le quinte rotanti che trasformavano un possibile Muro del Pianto in una specie di Vespasiano nella decisiva scena di tenebre finale. Questa volta però la redentrice vocalità rossiniana ha vinto anche sulle elucubrazioni registiche.
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