Sergio Ricossa e la riscossa del pensiero (davvero) libero

Scienziato sociale nella tradizione di Hume e Smith, ha incarnato il meglio dell'antistatalismo italiano. A colpi di numeri e humour

Carlo LottieriSergio Ricossa è stato un uomo libero, ancor prima che un liberale: una persona che ha posto il rispetto per la propria e l'altrui dignità sopra ogni cosa e che nel corso degli anni ha modellato le proprie riflessioni sulla società a partire da questa fondamentale opzione morale. È stato uno scienziato sociale nella tradizione di David Hume e Adam Smith, interessato alla complessità dell'uomo e sempre nutrito di una peculiare modestia.Nato nel 1927 a Torino, ha avuto una carriera universitaria ricca di successi quale economista teorico e docente di Politica economica. Autore di importanti studi (tra cui un libro su Piero Sraffa) e di vari testi destinati al grande pubblico (da Straborghese a La fine dell'economia), per decenni ha incarnato il meglio dell'economia antistatalista in lingua italiana. Anche se oggi può sembrare strano, da giovane Ricossa si era molto occupato di econometria, àmbito di ricerche da cui si allontanò per ragioni di ordine metodologico, quando comprese la fragilità dell'impianto rigorosamente positivistico che caratterizza quegli studi. D'altra parte, a Torino egli conobbe Bruno Leoni, il quale da tempo rifletteva sui temi fondamentali del liberalismo novecentesco: dalla critica della pianificazione economica alla contestazione di ogni interventismo.Quando incontrò gli studiosi austriaci (von Mises e von Hayek, in particolare) e la loro critica ai paradigmi dell'economia neoclassica, lui che era stato anche direttore della rivista Note econometriche avrebbe potuto far finta di nulla, continuando a utilizzare i paradigmi alla moda in cui aveva smesso di credere. Invece denunciò l'infondatezza dell'economia dominante e si comportò in maniera molto conseguente. È a partire da qui che egli acquisì quel caratteristico tono disincantato di fronte agli errori a catena di politici e consiglieri del Principe sempre determinati a vietare, proteggere, programmare. La sua bestia nera diventa allora il «costruttivismo», questa reinvenzione del razionalismo nel campo delle scienze sociali, da cui trae origine la pretesa di fare e disfare, gestendo l'insieme delle interazioni umane. Nella critica ricossiana allo statalismo e ai suoi esiti illiberali s'intrecciano due argomenti: uno di tipo conoscitivo, poiché egli insistette sempre sui limiti della razionalità umana; e uno di tipo morale, perché egli guardava all'uomo come a un soggetto che va rispettato nella sua libertà di agire e sbagliare. In uno dei suoi libri migliori, La fine dell'economia, non a caso attacca proprio quello che chiama il «perfettismo», cioè l'illusione di strappare l'umanità dalla propria condizione per condurla in un universo senza errori né fallimenti.Fu membro della Mont Pélerin Society e nell'86 organizzò a Saint-Vincent un meeting di questa associazione promossa da von Hayek. Ma visse le proprie idee e battaglie principalmente come un «cavalier seul», sebbene sempre armato di coraggio. Nell'Italia ancora simil-bolscevica dell'87 partecipò a Torino, con Antonio Martino e Gianni Marongiu, a una marcia contro il fisco che mobilitò decine di migliaia di persone e in cui i capi della Triplice videro manifestarsi l'egoismo degli evasori. Ricossa provò a spiegare che quanti evadono non hanno bisogno di protestare, ma che al contrario si trattava della legittima ribellione di produttori stufi di essere sfruttati da un ceto politico-burocratico parassitario. Pochi lo capirono, ma egli non cambiò strada e anzi radicalizzò le proprie posizioni, fino a quando nel '99 pubblicò un breve testo intitolato Da liberale a libertario, in cui prese le distanze dal liberalismo einaudiano e si disse pronto a una libertà compiuta, che facesse a meno dello Stato e della sua violenza.Se il suo obiettivo era la tutela della libertà individuale, spesso le sue armi migliori erano l'ironia, l'humour, il garbo. Appassionato d'arte e lui stesso pittore, Ricossa fu uno scrittore raffinato e un commentatore insuperabile, autore di fondi (specialmente su questo quotidiano) che ogni volta colpivano per precisione ed efficacia. La sua chiarezza espositiva proveniva dal coltivare un'idea assai nobile di civiltà, in cui vi era spazio non solo per la libertà, ma pure per l'amicizia, la bellezza, l'umana simpatia tra gli uomini. L'eleganza della sua scrittura era la forma esteriore di un pensiero avverso a ogni fumisteria, magniloquenza, illusionismo. Rigoroso nell'usare le parole, lo sarebbe stato altrettanto come ministro dell'Economia: come attestano le sue analisi profetiche in tema di spesa pubblica, politiche monetarie espansive, assistenzialismo, solidarietà coatta (contro cui scrisse un volume molto bello). In realtà nessuno pensò mai di dargli incarichi di governo e si trovò ai margini del mondo liberale, spesso solo desideroso di «modernizzarsi» con innesti sempre più massicci di statalismo. Questo intransigente difensore del mercato e della proprietà privata era di umili origini e amava ricordarlo. Riteneva che l'uomo abbia diritto a essere libero quale che sia il suo status e pensava che il rispetto dei principî di un'economia libera andasse proprio a favore dei deboli. In molte sue pagine sembra trasparire una forma di rassegnata disperazione. In verità egli fu a suo modo un combattente per la libertà, anche se riteneva necessario impegnarsi in un'impresa che lo sapeva si sarebbe rivelata perdente.Ora che se n'è andato, non lascia eredi intellettuali, né poteva lasciarne.

Il suo modo d'intendere la riflessione sulla società era così personale e inimitabile che davvero il suo vuoto non può essere colmato. In queste ore, però, molti suoi amici e ammiratori sono tristi al pensiero che non sia più tra noi e al contempo lieti di averlo letto, conosciuto, ascoltato, apprezzato. La sua lezione non è stata vana.

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