Ritmo, eros, talento. Mick Jagger, ancora un ragazzo del Kent, pallido e magro, da dietro il sipario li spia fusi in un solo uomo, un ossesso nero così dirompente, sulla scena, che lo chiamano «Mister Dynamite». È il 29 ottobre 1964 e a Santa Monica, California, sul palco del Civic Auditorium, James Brown con le sue indiavolate Famous Flames fa vedere chi è all'America del dopoguerra: c'è bisogno della sua energia e i teen ager urlano quanto lui quando canta Night Train , brano che il pugile Sonny Liston ascolta allenandosi. Ragazzi e ragazze neri e bianchi, a fremere insieme al Tami Show, mentre «il Padrino del soul», giacchetta a quadri e ciuffo afro, squaderna un repertorio che generazioni di cantanti gli copieranno, da Michael Jackson a Prince: moonwalking atletico, passi scivolati come sull'acqua, corsa laterale, spalle al pubblico, microfono gettato a terra come lui stesso, in ginocchio davanti al dio rock. Puro stile Rolling Stones, insomma, gruppo che chiudeva quel mitico show. «Esibirci dopo James Brown è stato il più grande errore della nostra carriera», ha ammesso Keith Richards.
Però «Nessuno viene prima di James Brown», dettava legge la star R&B, che ha lasciato la sua impronta indelebile sul pop. Adesso, a otto anni dalla morte d'una leggenda della musica del Ventesimo secolo, il leader degli Stones paga il suo debito. E, dopo aver finanziato la serie tv Mr.Dynamite: The Rise of James Brown , regia di Alex Gibney, produce il biopic Get on Up - La storia di James Brown , in sala da giovedì. Regia d'un bianco, tra l'altro, cioè Tate Taylor, che ha rimpiazzato Spike Lee, seguendo per otto anni la gestazione d'un film-tributo da 25 milioni di sterline: tante ne ha messe Mick, che ha voluto la scena madre di quel palco a Santa Monica, quando nascevano due stelle dei Sessanta, Brown e lui medesimo, assetato di carisma. Il protagonista, Chadwick Boseman, non somiglia a Brown, ma viene dalla Carolina del Sud come lui e si muove come una torpedine. «Avevo vent'anni e mi precipitai nel suo camerino, dopo lo spettacolo: James non aveva la minima idea di chi fossi; ma mi trattò gentilmente, non come uno sfrontatello. Certo, gli seccava che avessimo chiuso noi quello show così eccitante: per la prima volta incontrai Marvin Gaye, poi c'erano Chuck Berry e le Supremes... Ma la star era Jimmy: tutti ne siamo stati influenzati. Io, Prince, Jay-Z, Bruno Mars. La sua musica è incredibilmente importante: ho imparato molto da lui, dal modo in cui si lavorava il pubblico: lo ammirerò sempre per quanto ha fatto e voglio che la gente conosca la sua vita», spiega Jagger, che si è identificato nel grande artista, in privato puttaniere manesco e violento, non solo con la moglie Deedee (Jill Scott).
Basato sul lato oscuro di Brown, il film, sceneggiato dall'inglese Jez Butterworth, mostra la nascita d'un uomo abusato e abusante, dai 16 ai 60 anni, e percorre le tappe d'una carriera tormentata da droghe e arresti. «I feel good», allora, picchiando DeeDee con un tubo di piombo, ferendo un operaio col coltello da bistecca, andando a puttane, imbottito di Viagra, verso la fine. E all'inizio rubando macchine, vessando i componenti della band; pretendendo d'essere chiamato Mister Brown da tutti, tranne che dal suo méntore bianco, il produttore Ben Bart (Dan Aykroyd); facendosi di PCP, droga usata in chirurgia come anestetico. Un'egomania aggressiva, nata da un'«infanzia contadina incredibilmente povera», dice Jagger: partorito nel 1933 in una capanna di legno dalla sedicenne Susie Behling, Brown fu abbandonato dalla madre a quattro anni. Neanche da morto ha avuto pace: la sua salma è stata riesumata 14 volte, per esaminarne il DNA e l'ultima volta hanno dovuto segare una tibia, per estrarne il midollo osseo, tanto i tessuti erano danneggiati dai liquidi usati per imbalsamarlo. C'era da soddisfare l'ultima compagna, Tomi Rae, madre di James jr., mentre gli eredi legittimi - 9 figli, dei quali 6 ancora vivi - lottavano per l'eredità: 65 milioni di dollari.
E Chadwick Boseman, come ha fatto a calarsi in un ruolo così difficile? «Ho preso un tè con Mick Jagger, sul set di Natchez, in Mississippi.
M'ha spiegato che Brown era una bella persona: lavorava 352 giorni all'anno e, nel 1968, a Boston, calmò la folla inferocita, dopo l'assassinio di Martin Luther King. Ho pensato a lui come a un filantropo», spiega l'attore. Nato in una capanna e morto il giorno di Natale del 2006, ora Mick può santificare il suo idolo. Rimettendolo « on the scene, like a sex machine ».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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