Quel "Signor Diavolo" di Pupi Avati (ma lo siamo un po' tutti)

Il regista torna a indagare l'oscuro rapporto tra religione e Male: «Ci sono paura e sacralità»

Quel "Signor Diavolo" di Pupi Avati (ma lo siamo un po' tutti)

«Quando mi avvicino al Po, alle zone che la modernità non ha sfiorato, ritrovo gli archetipi della mia infanzia: la religione preconciliare con il sacerdote che saliva sul pulpito pronunciando la sua omelia molto minacciosa. Il prete conosceva bene le questioni legate all'inferno, al diavolo e mi sembrava che guardasse solo me. Credo che la mia creatività sia nata proprio da quella paura».

Parola di Pupi Avati, 48 film in 50 anni di carriera iniziata nel 1968, a 30 anni, con Balsamus, l'uomo di Satana. E certo non è proprio un caso se l'ultimo film del regista bolognese, che uscirà il 22 agosto, s'intitola Il signor diavolo: «Che è sinonimo del Male, abbiamo fatto conquiste in tutti i campi ma temo che ci siamo un po' distratti sul Male. Io stesso me ne sento portatore, mi sono trovato a godere della caduta di altri ma il male per il male fatto gratuitamente ora l'ho subito io a causa del disturbo mentale di qualcuno. Così ho fatto un film in cui si vede che il diavolo è ovunque e in chiunque».

Per qualche istante l'incontro con la stampa per la presentazione del film al cinema Adriano di Roma («Per favore però in futuro non facciamo più qui le presentazioni - dice scherzando ma non troppo Avati - le luci sembrano da veglia funebre e rispecchiano un clima di rassegnazione») si trasforma in una caccia al diavolo (di sesso femminile si lascia sfuggire il regista): «Questa persona ha voluto la nostra rovina e c'è quasi riuscita. Io e mio fratello Antonio speriamo con questo film di recuperare una certa credibilità». Massimo Bonetti, nel film nel ruolo del magistrato, aggiunge: «Io so dov'è il diavolo, è in Rai», prendendosela pure con le tante fiction che ha interpretato che «ti aiutano sì a pagare le bollette ma che non valgono artisticamente come invece succede con i film di Pupi».

E siccome siamo in casa Rai, con 01 Distribution che porterà tra un mese nelle sale Il signor diavolo in 200 copie («Se credono veramente nel film spero che diventino 300-350...», puntualizza il fratello Antonio, produttore), la digressione sull'identità della diavola nella tv pubblica si chiude immediatamente e si torna a parlare del film che rientra alla perfezione nel solco del cinema gotico di cui Pupi Avati è maestro: «Molti non sanno che cosa significhi esattamente, si tratta di un film che non è solo di paura ma che prevede la sacralità, per questo ci sono di mezzo i sacerdoti, come nel finale della Casa delle finestre che ridono, in Zeder, ne L'Arcano incantatore, ne Il nascondiglio», precisa il regista. Ed è proprio per evitare che un prete finisca in un'aula di tribunale - «Alcide De Gasperi non se lo può permettere» (siamo nel cattolicissimo Veneto del 1952 in cui la Dc domina incontrastata) - che ne Il signor diavolo dal Ministero di grazia e giustizia viene inviato in segretezza un ispettore - Furio Momentè interpretato da Gabriele Lo Giudice - per un'indagine parallela a quella sull'omicidio di un adolescente. Carlo, l'omicida (Filippo Franchini), è un quattordicenne che ha per amico Paolino. La loro vita è serena fino a che non incontrano Emilio (Lorenzo Salvatori), figlio di una ricca possidente terriera (Chiara Caselli), che avrebbe ucciso a morsi la sorellina (ha una dentatura da maiale selvatico perfettamente realizzata da Sergio Stivaletti, maestro degli effetti speciali artigianali). Il giorno in cui i due amici lo umiliano pubblicamente, si scatenerà la sua ira diabolica. Che avrà a che fare con le superstizioni dell'epoca, come per esempio quella di quando l'ostia cade a terra - durante le Prime Comunioni il parroco Don Zanini (Lino Capolicchio) interrompe teatralmente la funzione - ma anche con paure ataviche: «È una storia che mi appartiene - spiega Avati - perché sono stato chierichetto e ho vissuto sulla mia pelle la paura del buio nelle stanze in cui venivamo rinchiusi per castigo. L'uomo ha sempre avuto questa paura, già da quello di Neanderthal che ha iniziato a utilizzare il fuoco».

Molto attento ai dettagli («Essendo inverosimile, il racconto ha bisogno di dettagli verosimili»), il film di Pupi Avati è un congegno perfetto che racconta una parabola circolare sul Male che è anche, anzi soprattutto, un ritorno allo sguardo puro, ingenuo, anche da un punto di vista filmico, ma non per questo meno profondo, di quando si è bambini: «Diventando anziano vedo che la navicella della nostra vita si riavvicina all'infanzia. In realtà sto solo tornando a casa».

Pupi Avati, 81 anni il 3 novembre, non smette però di guardare al futuro nel segno del suo

progetto decennale su Dante: «Finalmente abbiamo trovato accoglienza in Rai Cinema e spero che entro il 2021 dopo che, leggo, verrò raccontata la storia di Totti, si riesca a raccontare anche quella di un certo Dante Alighieri».

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