Cultura e Spettacoli

Veronica Raimo fa ridere. Anche quando non vuole

La scrittrice è finalista allo Strega: il suo romanzo alla fine è migliore dei libri del fratello

«Veronica Raimo è l'unica che mi ha fatto ridere ad alta voce con un testo scritto in prosa da quando ero adolescente», è la fascetta di Zerocalcare sul romanzo di Veronica Raimo Niente di vero edito da Einaudi e che è entrato nella dozzina del Premio Strega, che non depone bene. Come non depone bene la fascetta perché deve aver letto molto poco Zerocalcare, ma è normale, i fumettisti si sa che non leggono niente, si leggono tra loro, come i poeti (infatti quando parlano di un romanzo dicono «testo scritto in prosa», come fossimo a un corso di Gilda Policastro).

Tuttavia, devo dirlo, il libro di Veronica è uno dei migliori che si siano visti lì tra i catatonici del Ninfeo. Fa ridere a alta voce, come dice Zerocalcare? Sì. A cominciare da quando scrive «Io e mio fratello siamo diventati tutti e due scrittori» e già qua mi sono piegato in due quasi da cascare dal divano. Ma va, due scrittori in una famiglia? E chi è l'altro? Christian Raimo! «Non so cosa risponda lui quando gli chiedono come mai, io dico che è grazie a tutta la noia che ci hanno trasmesso i nostri genitori».

È la noia, la chiave di tutto il libro: il fratello, la famiglia, il nonno, la nonna. Che di per sé sembra banale, ma scritto da Veronica non lo è, perché alla fine il vero punto è la noia di Veronica. Lo dico in senso esistenziale, neppure moraviano, Veronica è una che si è sempre annoiata profondamente. Nell'adolescenza gliene succedono di tutti i colori, le regalano reggiseni quando lei non ha mai avuto il seno, un esibizionista si apre l'impermeabile e le fa vedere il pene ma per un attimo e non capisce com'è, poi c'è uno zio che glielo fa vedere nel bagno, ma lei scappa, tuttavia si fa un'idea più precisa. E poi amori, tanti, senza mai innamorarsi se non per finta, perché sono sempre stati gli altri a innamorarsi di lei mentre lei si è sempre annoiata.

Ma alla fine non è un romanzo di formazione. È scanzonato, ironico, ma sincero: è un romanzo di vendetta contro il fratello, e quando viene definito «genio precoce» anche lì non puoi non sganasciarti. Il genio precoce, che quando aveva tre anni lesse a voce alta tutto il menù del ristorante, «e conosceva a memoria tutte le capitali di tutto il mondo, i nomi dei presidenti americani in ordine cronologico con data d'insediamento e quelli dei calciatori della Juve a partire dal 1975, l'anno della sua nascita». Se pensate che questo bambino prodigio è poi diventato Christian Raimo è esilarante. Se era come Dustin Hoffman in Rain man almeno poteva essere utile portandoselo in un casinò.

Veronica è spietata: con la scusa di riportare i consigli chiesti al fratello, lo mostra per quello che è: un impiegato sospeso tra Marx e Gesù, e quando lo chiama al telefono lui è sempre impegnatissimo come Assessore della cultura a Roma, oppure in televisione a dare del fascista a qualcuno. Perfino quando abortisce, lui in risposta le dà da leggere un libro. «Mio fratello, in quella circostanza, si risparmiò le parabole e mi regalò un libro: Perché avere figli di Christine Overall. Gli dissi che mi sembrava vagamente inutile visto che avevo già preso una decisione». Giustamente: il pragmatismo di Veronica smonta l'assessore genio.

Questo libro sarà odiato dalle femministe, perché non ci sono paranoie sessuali né sessuofobie né prediche sul patriarcato, troppo noiose per Veronica e per noi. Anzi, rispetto a un maschio che ti chiede sesso in cambio di una carriera, scrive: «È immensa la generosità degli uomini, così immensa che commuove sempre. È incommensurabile ciò che offrono rispetto al poco che chiedono in cambio. Una sproporzione che sfida la legge del profitto e mi lascia inebetita, senza parole». Una volta scrive un racconto per un'antologia ma non è convinta: «Riserve banali: l'auto-ghettizzazione delle scrittrici tenute a esprimersi su una tematica femminile». Veronica scrive del sesso senza problemi, senza femminismi, a volte ironica, a volte annoiata. Racconta di essersi masturbata vicino a un ragazzo che voleva dormire (lei si voleva solo rilassare) e quando la stessa cosa l'ha fatta un uomo vicino a una donna è diventata uno scandalo del #metoo. «Ho ripensato a tutte le volte che mi ero trovata nella situazione opposta. Ero stata insensibile? Avevo inferto una violenza senza rendermene conto? E per giunta soltanto per farmi una bella dormita?».

Io me la ricordo, Veronica, venti anni fa. Era una femme fatale, bazzicava anche lei come il fratello la minimum fax (ma lei si annoiava), la cui collana di narrativa era diretta dal mio amico Nicola Lagioia, tutti e tre finiti all'Einaudi. Christian è sempre stato un aspirante Lagioia, senza mai riuscirci, e si è dato alla politica antifascista, tanto la politica ormai prende cani e porci e non siamo sotto il fascismo. Veronica è rimasta nell'ombra, ma qui esce in tutta se stessa per riprendersi quello che le appartiene: affermare la sua supremazia sul fratello mezzo agit prop mezzo chierichetto che le ha portato tanta noia, insieme a tutta la famiglia, e mai una gioia, senza neppure diventare un Lagioia.

Infine, qui lo dico e qui lo affermo: Veronica merita di vincere il Premio Strega. Non perché il Premio Strega conti qualcosa, anzi, ma per vedere la faccia delle murge, delle Lipperini, delle Valerio, di tutte le arrampicatrici sociali della narrativa delle donne, e soprattutto della sorella di Veronica, la Christian, perché alla fine è questo il punto: lo scrittore di famiglia era lei, la narratrice femminista marxista religiosa noiosa lui, altro che Rain man, e tutto il resto è noia. D'altra parte «la noia è il più sublime dei sentimenti di questo mondo» scriveva Leopardi. Insomma, ti amo, Veronica.

Ma annoiandomi ancor prima di te.

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