Cultura e Spettacoli

Un viaggio attraverso canti e leggende per scoprire i segreti della Cina feudale

Il classico di Marcel Granet interpreta gli antichi miti del Celeste impero

Una polvere di centoni, ovvero di componimenti che risultano dalla giustapposizione di espressioni di autori famosi. Questo rimane per cercare di capire cosa sia stata la Cina feudale. Non una leggenda integra, documenti associati a date precise, in grado di rilevare con certezza una successione di fatti che formi una storia. Nulla che possa ritenersi strumento affidabile, fonte per lo storico. Eppure, in questa mole gigantesca di materiale, insieme confuso e affascinante, si orienta e si destreggia come un direttore d'orchestra che abbia già in testa una musica e riesca a farla suonare cogliendone l'armonia laddove chiunque altro scorgerebbe solo il caos, il grande Marcel Granet. Sinologo e sociologo del Novecento, ha compreso che è l'analisi sociologica la giusta chiave di lettura per stabilire l'esatta sequenza di «singoli fatti ipotetici e astratti che danno vita a una storia». In quella massa di documenti formati da temi e schemi, l'analisi sociologica trova i fatti che, pur scollegati fra loro, sono reali e certi. Danze e leggende dell'antica Cina, appena uscito per Adelphi (trad. di Elena Riva Akar, pagine 570, euro 45), apparso per la prima volta nel 1926, è, in estrema sintesi, lo studio dei rapporti tra la mitologia politica e la storia. Granet è un profondo conoscitore degli schemi guida, dei principi di coordinazione propri del pensiero cinese. Per questo spiega che il suo lavoro è paragonabile a un quadro che impressiona in un colpo d'occhio: va colto nell'insieme.

Vi sono continue descrizioni ricorrenti, ma sarebbe un errore considerarle doppioni. Si tratta di credenze condivise, formule proverbiali che vengono utilizzate ogni volta che sia possibile, prescindendo dell'epoca storica cui realmente si riferisca l'episodio descritto. Ad esempio, una principessa che concepisce un figlio ingoiando un rospo sarà un tema impiegato, sia dai genealogisti della dinastia Ts'in, che da quelli della dinastia Yin. Non è un doppione, ma un tema mitico ricorrente. Nessuna dinastia ha copiato dall'altra, ma è probabile che entrambe abbiano attinto ai riti delle Feste primaverili. Probabile che la leggenda sia esattamente «la diretta affabulazione dei riti praticati durante le Feste Primaverili». Non c'è alcun plagio, ma siamo in presenza di due varianti del medesimo tema. Che si ricollega alle danze sciamaniche evocatrici degli antenati, alle offerte al fiume. Conducendoci a ritroso fino alla Cina di Yu il Grande, fondatore della dinastia Hia, nel III millennio a.C. Tutte le dinastie partono da un sacrificio spiega Granet - mettendo in scena come magnifici affreschi, potenti immagini della Cina primordiale, dove sovrani arroganti scagliano frecce per uccidere il cielo e i tesori e i talismani di un Principe sono i suoi saggi ministri e consiglieri.

Tra le fonti più ricche e vive della storia cinese, ci sono gli Annali delle Primavere e degli Autunni, attribuiti a Confucio. Essi, secondo la tradizione, conterrebbero fatti annotati negli archivi del paese di Lou (una piccola Signoria dello Chan-tong), tra il 721 e il 482 a.C.. I fatti sono registrati dagli Annalisti, funzionari-sacerdoti che stendono il resoconto degli eventi di maggiore interesse. Le notazioni si dividono in fauste e infauste, lecite e illecite. A tale riguardo, ecco un esempio dei criteri di liceità adottati da Confucio. Un principe vuole assassinare un ministro troppo potente. Il ministro fugge e un suo parente uccide il principe. Poiché il ministro non ha passato la frontiera, resta in piedi il legame di infeudazione. Allora l'Annalista scrive che il Ministro ha assassinato il Principe. Confucio dichiara che ha fatto bene, si congratula col ministro che, grazie alla morte del principe, ha consolidato il suo potere, perché ha accettato il giudizio della Storia e si rammarica del fatto che non sia riuscito a passare la frontiera evitando ogni accusa.

Prevale, insomma, sempre la ragion di Stato sulla responsabilità personale.

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