Vincente Minnelli e Tati, tornano i fuoriclasse

Restaurati «Un americano a Parigi» e quattro pellicole del celebre mimo

Massimo Bertarelli

Si fa presto a dire genio. Ma a volte ci si azzecca. Come nel caso di Jacques Tati e Vincente Minnelli. Chi volesse riscoprirli, ha un'occasione d'oro: la Ripley Film in collaborazione con Viggo, da lunedì riporta nelle sale, finalmente restaurati, quattro capolavori di Tati. E invece giovedì uscirà per Cinema di Valerio De Paolis Un americano a Parigi di Minnelli, un musical che ai tempi (1952) incamerò la bellezza di sei Oscar, forse troppi (ma Minnelli si dovette accontentare di una beffarda nomination per la regia). Ma che grazia, che classe, che raffinatezza. Qualità che ritroveremo intatte, perfino ampliate dal restyling.

La trama è di una semplicità elementare. Alla fine della seconda guerra mondiale l'ex marmittone americano Jerry Mulligan è rimasto a Parigi. Vivacchia in una soffitta, come Mimì, ma se non altro non soffre di tisi. A star male è solo il portafogli, regolarmente vuoto nonostante i continui viaggi a Montmartre. I suoi quadri non li vuole nessuno. Per un po' si fa mantenere da una generosa tardona, poi incontra una commessa, molto carina, manco a dirlo, e la commedia va avanti con le sue gambe. O a esser più precisi con quelle di Gene Kelly, ballerino e coreografo di primissima categoria, che pochi mesi più tardi farà il bis di trionfi con Cantando sotto la pioggia, e con quelle sorprendentemente in magica sintonia, oltre che infinitamente più sexy, di Leslie Caron.

Per restare in Francia, ecco Jacques Tati. Se nelle vene di Minnelli (nato nel 1903) scorreva sangue siciliano, il quasi coetaneo (1907) Tati di cognome faceva Tatischeff. Origini russe quindi con infiltrazioni olandesi e, anche lui, italiane. Altissimo, allampanato, una camminata a passi smisuratamente lunghi. Per creare il personaggio che gli diede fama (tanta) e quattrini (pochi) fu sufficiente aggiungere un impermeabile cortissimo, una pipa e un cappellino. Nacque così l'eroe silenzioso di Le vacanze di Monsieur Hulot, che in novanta minuti non apre mai bocca, ma in compenso la fa spalancare dalle risate alla platea. Un umorismo fatto di soli gesti grazie a una mimica sensazionale. Protagonista un tale che si presenta in una pensioncina della costa bretone, e al Festival di Cannes del '53, combinando innumerevoli disastri senza mai fare una piega. Tra le scene memorabili Hulot gioca a carte seduto su una sedia a dondolo. Passa un cameriere, un colpetto involontario al dondolo e Hulot cala la carta sul tavolo dei vicini impegnati in un'altra partita. Un bianco e nero da sbellicarsi, che confermò il talento di Tati, evidenziato nella commedia d'esordio Giorno di festa, girato nel '49. Dove si raccontano le disavventure del portalettere François, deciso a consegnare la corrispondenza secondo la moda americana: gettandola in corsa dalla bici. Con esiti naturalmente catastrofici. In Mon oncle (Mio zio), Oscar al film straniero nel '59, riecco Hulot per la prima volta a colori. Stavolta alle prese con i prodigi della modernità. Quasi una riedizione del Tempi moderni di Chaplin. Per finire la serie, Playtime, anno 1967, la cui lavorazione durò tre anni e mise sul lastrico il povero, in tutti i sensi, Tati.

Affossando anche Hulot in una Parigi futuristica, in cui la battaglia contro il logorio della vita moderna sembra quella di Don Chisciotte contro i mulini a vento.

Buona visione allora con due maestri del cinema, due destini diversi, uniti dal talento e dall'eleganza.

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