Le tv finanziano il cinema, dicono soddisfatti gli ottimisti. Invece i realisti osservano che i film pensati (anche) per le tv hanno le stigmate dellibrido, per bravo che sia il regista.
Di Gabriele Salvatores, Happy Family - titolo ironico e allusivo, che per gli italofoni sarebbe «Famiglia felice» - ha poi il difetto letale: rammenta ogni due per tre allo spettatore che sta assistendo a un film, col personaggio di Fabio De Luigi, uno sceneggiatore, che guarda nella macchina da presa e si presenta, presentando per giunta ulteriori personaggi, tutte sue emanazioni, spiegandoci che sono frutto della sua fantasia. Ora il segreto del cinema è far dimenticare che tutto è una finzione, che davanti a noi si recita, insomma.
Chi andrà lo stesso a a vedera Happy Family, noterà poi una serie di luoghi comuni e figure logore, tipiche da serie tv, un alveo dove tutto deve essere consueto e rassicurante, anche la fine incombente del ricco (Fabrizio Bentivoglio). Sarà la sua una tipica «morte teatrale», simile a quelle proposte al cinema dalle Invasioni barbariche e da La prima cosa bella. In Happy Family il morente - sedato dalla marijuana del sessantottardo, se non ancora sessantottenne, mancato consuocero (Diego Abatantuono) - giace in una stanza tutta bianca (genere 2001 Odissea nello spazio), con veranda sul mare tropicale.
Il personaggio di Margherita Buy, signora bene, moglie del morente, ci informa - prima di sapere che sarà presto vedova - che non ama più il marito. Vista età, aspetto e reddito della suddetta, lo spettatore ne deduce che lei troverà rapida consolazione.
Il resto del film è una catena di spot che non fanno né ridere, né piangere e di passeggiate in bicicletta e in auto (cabriolet) per la Milano di una domenica mattina (presto) dagosto, il momento in cui si girano gli esterni dei film. Dando un ulteriore tocco di fasullo ambientale al fasullo della storiella.
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