Sono passati quattrocento anni dalla nascita di Molière (1622 - 1673), eppure siamo qui, a parlare di misantropia come un tema di attualità. È per questo che Leonardo Lidi, piacentino, classe 1988, indicato a più voci come uno dei più recenti enfant prodige della scena teatrale italiana, regista Ubu 2016 e poi pluripremiato per pièce cui ha dato un taglio per certo inedito come Lo zoo di vetro e La casa di Bernarda Alba, ha deciso di fare del Misantropo il suo ultimo tentativo, in ordine di tempo, di togliere dalle teche museal-teatrali un classico per restituirlo, senza eccessive attualizzazioni e con buona fedeltà al testo, al pubblico di oggi. Lo porta in scena fino al 22 maggio, al Carignano di Torino in prima nazionale, con Christian La Rosa, Giuliana Vigogna, Orietta Notari, prodotto dallo Stabile di Torino. La voglia è quella di dedicare alla misantropia un a parte che ne faccia un deuteragonista, laddove il protagonista, l'eroe per sempre, la possibilità ideale è ancora l'amore. Non solo e forse non per forza quello della coppia e per il partner desiderato, ma verso una umanità che, più che perduta, pare da troppo tempo senza vera consolazione.
Tutti solitari dopo una pandemia: è questo il clic che dovrebbe scattare rispetto al testo?
«La misantropia è esattamente la solitudine. Si chiama misantropo perché esprime una specifica visione della misantropia che crea un carattere, ma la cosa interessante del protagonista Alceste è che vive gli altri come una minaccia. Rispetto al suo amore. Rispetto al suo punto di vista. Rispetto alla sua intransigenza. E si ritrova solo. Le domande del teatro devono essere quelle del dopo: il misantropo parla di tenere la debita distanza. Noi oggi lo stiamo facendo eccome».
Eppure qui il misantropo è il protagonista: qualcosa di buono il solitario lo avrà pure.
«Interessante di Alceste è questa parte ambiziosa, violenta, che è dentro tutti noi: spesso Alceste viene rappresentato come un eroe ma il suo lato tradizionalista è incapace di rapportarsi con il suo presente. Io ho deciso che si fa così e quindi si fa così: questo è Alceste ed la società di Molière, così maschile, che gli permette di vedersi come eroe mentre Célimène è il personaggio quasi superficiale, che con i suoi trucchetti cerca di arrampicarsi su per la scala sociale».
E invece?
«E invece la cosa più interessante di tutto questo testo è che non c'è un finale. Capiamo che Alceste non ha sviluppato un pensiero, ma è rimasto fermo ai blocchi di partenza: Io voglio arrabbiarmi e non voglio ascoltare. E tuttavia la differenza che Molière fa con questo testo è che questa posizione non porta a Voglio stare per i fatti miei e dunque chi lo vede più. Perché Alceste è innamorato. Non può stare da solo nel suo deserto».
Quelle dune di terra che lei ha creato per la scena.
«Non può confinarsi lì perché ha bisogno della donna che ama. Per amarla, certo, ma anche per creare il suo stato indipendente. Qui non abbiamo un finale che ci completa e perciò riusciamo a pensare che blindati dietro le nostre tastiere a esprimere un commento unico rispetto a tutto rimarremo soli e non svilupperemo alcun pensiero. È vero che il mondo intorno a noi non è ideale: è fatto di marchesi antipatici e tribunali corrotti, ma è meglio mettere le mani nella marmellata, anche fallendo, che chiudersi nelle proprie consapevolezze».
Chi è solo è in automatico il migliore, però.
«Nel nostro presente siamo circondati da persone che cercano la popolarità nella propria stanza. Ma se subentra l'amore, allora è bellissimo. Cibo che arriva sotto casa, osserviamo tutto il mondo chiusi in camera, il computer invece di un corpo accanto nel letto. Ma poi arriva l'amore a dire che hai un bisogno che neanche conosci, generato da un evento che non puoi controllare. L'amore non ci salva dalla devastazione che gli altri hanno preparato per noi, ma dalla nostra autodistruzione».
Il misantropo è anche misogino?
«Non so se Alceste sia misogino, ma sicuramente Molière no: ci mette davanti agli occhi una società in cui alcuni protagonisti picchiano la moglie con il bastone per tutto il tempo e noi dovremmo ridere di questo. Anche Célimène va vista nella sua interezza: è una ventenne vedova. Suo marito sarà stato più grande, lei ora si ritrova a vent'anni con un corteggiatore che dice: Adesso ti rinchiudi in una relazione e sparisci un'altra volta dal mondo. Ci credo che rifiuti il deserto di Alceste. La misantropia ha il difetto di legarsi al passato e non al presente e al futuro. In una scena, un personaggio entra con un sonetto che non è bello, però è nuovo e Alceste dice: Perché invece non canti questa ballata di tanti anni fa, che funziona ancora bene?. Perché bisogna andare avanti».
Questo era quel che voleva dire Molière?
«Il testo è pieno di appuntamenti che Molière aveva creato per il pubblico del suo tempo: riferimenti alla società di quattro secoli fa, al potere oscuro che in scena non vediamo mai, a chi dietro le quinte muove pedine, fa processi e prende decisioni corrotte.
Studio Molière da molti anni e una cosa che ho scoperto è che lui parla direttamente al suo pubblico, alla sua attualità. Ma per saperlo devi studiare: quindi non si tratta di attualizzare il testo, schiacciando l'occhio e facendo paragoni, ma di rendere tutti i passaggi condivisi, non chiuderlo in una bolla elitaria, ma coinvolgere».
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