Una spia del danno renale

L'ipertensione arteriosa è la malattia cronica più diffusa in Italia. É il fattore di rischio cardiovascolare responsabile di due terzi dei casi di ictus e della metà dei casi di malattia coronarica. Questo killer silente colpisce 15 milioni di italiani ed è la principale causa delle malattie cardiovascolari che in Italia provocano 240 mila morti ogni anno. Sono inoltre almeno 4 milioni gli italiani ipertesi che non sanno di esserlo e solo tre italiani su 10 si curano adeguatamente seguendo la terapia in modo costante. Non si conoscono le cause dell'ipertensione, anche se sono noti molti cofattori. Il 17 maggio si celebra nel mondo la Giornata mondiale dell'ipertensione e in questa occasione molti ospedali in collaborazione con la World Hypertension League hanno organizzato presidi per controlli medici.
L'ipertensione arteriosa non è una vera e propria malattia, ma il principale fattore di rischio per lo sviluppo di patologie del sistema cardiocircolatorio, quali infarto, ictus, ipertrofia ventricolare sinistra o insufficienza renale. Per evitare questi effetti, l'ipertensione deve essere diagnosticata per tempo e controllata con terapie a lungo termine, che permettono di ristabilire e mantenere i valori pressori normali. L'ipertensione è diffusa soprattutto nella popolazione di età avanzata dei Paesi industrializzati. Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo gli ipertesi sono circa 60 milioni. Il 25 percento delle persone con più di 50 anni soffre di questa condizione e la percentuale sale al 50 percento per gli ultrasessantacinquenni.
La cura dell'ipertensione abbassa il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari, molti studi lo hanno dimostrato: il rischio di ictus e di emorragia cerebrale diminuisce del 30-40 percento nei pazienti ipertesi che controllano i valori pressori. Per quanto riguarda l'infarto, il rischio si riduce del 15-25 percento. Tuttavia, nonostante la stretta associazione tra rischio di malattie cardiovascolari e ipertensione e nonostante la disponibilità di terapie efficaci e ben tollerate, sono poche le persone che mantengono controllati i propri valori pressori. Basti pensare che in molti Paesi europei ed extraeuropei la quota di ipertesi ben controllati, (con pressione inferiore a 140-90 mm Hg) non supera il 30 percento. In Italia la situazione non è migliore. Secondo lo studio Pamela, condotto in Lombardia (nella zona della Brianza), gli ipertesi ben controllati sono solo il 21 %. Le principali cause di questa situazione sono da ricercare nella scarsa consapevolezza dei reali rischi e nella poca aderenza alle terapie (il 75 percento degli ipertesi non segue le cure o le modifica di propria iniziativa). La bassa aderenza alla terapia antipertensiva - afferma Giuseppe Mancia, professore ordinario e direttore della clinica medica e del dipartimento di medicina dell'università Milano-Bicocca presso l'Ospedale San Gerardo di Monza e past-president della Società internazionale dell'ipertensione (ISH) - questo è il principale ostacolo nella prevenzione cardiovascolare. «Dobbiamo - precisa Mancia, uno dei più qualificati studiosi dell'ipertensione al mondo - allargaread ampie fasce della popolazione i benefici che abbiamo con le attuali terapie. L'iperteso subisce un danno che si manifesta senza segni o sintomi, ma che colpisce il cuore, il cervello, le arterie il rene». Una spia rivela il rischio di ictus e di infarto: un semplice esame delle urine (microalbuminuria) identifica anche piccole tracce di proteine.

La presenza di microalbuminuria può indicare un danno renale, ma anche un'alterazione della permeabilità dei piccoli vasi renali e riflettere un danno vascolare esteso a tutto l'organismo.

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