Diciotto titoli, nove scudetti consecutivi, cinque supercoppe italiane, quattro coppe Italia, due finali di champions league. Il riassunto dei dieci anni di Andrea Agnelli presidente della Juventus non dovrebbe permettere alcuna critica. Come si può, dunque, parlare e scrivere di fallimento e di tracollo? Si può quando si ha a che fare con un club che ha storia e tradizione quasi esclusive per l'appartenenza alla stessa famiglia. Ma la Juventus di oggi non può vivere di rendita in tutti i sensi e deve fare conti con una realtà diversa, con bilanci finanziari e tecnici che non garantiscono un futuro prossimo ugualmente glorioso e positivo.
La sconfitta con il Benevento è l'ultimo quadro di una storia che Allegri aveva incominciato a scrivere, Sarri ha proseguito e Pirlo ha reso palese: la squadra ha smarrito i propri connotati storici, pragmatismo e cinismo agonistici, paga, insieme, errori di tecnica e di tattica evidenti, investimenti sbagliati, una gratitudine affettuosa, non più giustificabile, verso i suoi veterani, l'inesperienza dell'allenatore che, oltre a non leggere alcune situazioni di gioco, non ha in mano il termometro del mondo juventino, non quello degli eletti ma dell'ambiente, del gruppo, dei tifosi, per fortuna sua assenti dallo stadio. Forse Allegri o Conte e Sarri, per citare gli ultimi tecnici juventini, avrebbero concesso, dopo la prestazione con il Benevento, quattro giorni di vacanza alla dozzina di superstiti dalle convocazioni delle varie nazionali? Forse un altro allenatore non sarebbe già intervenuto in modo severo, anche plateale, sui ritmi e sui comportamenti dei giocatori in campo? Andrea Pirlo è stato un maestro di football, mai un leader, mai un capitano senza fascia, al Milan, alla Juventus e in nazionale, gli è difficile, come è capitato a quasi tutti gli altri campioni (l'eccezione è Cruyff e, oggi, di Zidane, il quale ultimo tuttavia ha avuto il vantaggio d'avvio, cioè il Real) prendere in mano energicamente la situazione, non può utilizzare i colpi d'artista che gli riuscivano in campo, non ha il carattere sanguigno di Gattuso o di Gasperini, di Klopp o di Guardiola, di Conte o di Luis Enrique e il gruppo riflette questa specie di anafettività. Non vanno dimenticate le assenze, quella di Dybala su tutte, l'argentino sarebbe stato importante ma il suo infortunio si trascina in modo misterioso.
Ma se l'allenatore ha responsabilità certe, i calciatori hanno colpe altrettanto chiare, a parte Cristiano e Chiesa, nessuno è progredito nelle prestazioni, pochissimi si sono integrati, tutti denunciano una involuzione comportamentale e nell'applicazione. In testa a tutto, comunque, resta la dirigenza, senza esclusioni di ruolo, da Paratici a Nedved, allo stesso management riformato dal presidente. Andrea Agnelli raccolse una Juventus in grave crisi contabile, con un patrimonio negativo di 5 milioni, la proprietà dovette innestare 72 milioni di finanziamento, la crescita dei ricavi è stata esponenziale ma, a partire dalla stagione 2017/2018, l'azienda Juventus ha incominciato a sbandare, costi clamorosi, perdite sempre più pesanti, 40, 71 e, l'ultima semestrale, 113 milioni di euro, con la probabilità di raddoppiare la cifra a fine anno.
L'eliminazione dalla champions, l'eventualità di una non qualificazione al prossimo torneo porterebbe al collasso, con allegati il contratto, quello di Chiesa, che prevede il non rinnovo del prestito in caso di mancata partecipazione alla prossima champions. Il derby con il Torino darà la prima risposta, quindi il recupero con il Napoli rappresenterà l'ultima stazione. Se c'è ancora una Juventus, dovrà rispondere. Altrimenti sarà un'estate di sorprese.
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