
Va bene, è finita così. Per ora. Niente più numero uno al mondo dopo 66 settimane consecutive, lo scettro torna a Carlos Alcaraz: ma questo è il tennis, e non è finita certamente ieri. Non facciamone un dramma, anche se il sapore è amaro.
Ha vinto chi ha meritato di più, ha perso Jannik Sinner (6-2, 3-6, 6-1, 6-4 in 2 ore e 42), alla fine di due settimane vissute in altalena e con una prestazione che accende qualche dubbio su quel dolorino subìto agli addominali in semifinale, forse non solo un diminutivo, soprattutto nella sua testa. Niente scuse però, come vuole appunto quello che resta il nostro, di numero uno, perché un Alcaraz così non ammette troppe discussioni.
New York, insomma, è stata Carlito's Way, ed è giusto così. Lo è stata nelle ultime due settimane passate senza perdere un set (alla fine solo ieri ne ha lasciato uno) e fin da subito in una finale che gli americani sono riusciti a rendere ancora più caotica del solito. Si è giocato sotto il tetto dell'Arthur Ashe, e questo è colpa di un giorno freddo e piovoso. Con un ritardo però di quasi un'ora per permettere a chi aveva pagato dai mille dollari in su il biglietto di passare perquisizioni e metal detector allestiti per la presenza di Donald Trump. Lui, in tribuna d'onore, a fare il saluto militare all'inno nazionale, gli altri in coda (anche a match iniziato da un bel po') a ringraziare si fa per dire - il presidente. Tanto i buu e i fischi del pubblico venivano censurati dalla Tv, come ordinato dalla federtennis Usa.
Dal caos, comunque, Alcaraz ne esce imperturbabile: parte facendo subito il break, mentre Jannik fatica sempre il doppio quando va al servizio, visto che durante i turni di battuta dello spagnolo si gioca pochissimo. In pratica un tornado iniziale ad un certo punto 13 punti di fila quando tocca a lui -, dal quale Sinner riesce a uscire in qualche modo ad inizio del secondo parziale, quando vince il primo scambio lungo della partita. È questo quel che sembra un segnale, il clic che scatta anche nella convinzione del nostro campione: il suo ritmo aumenta, lo spagnolo comincia a incepparsi. Succede così che il copione si ribalti: Alcaraz perde la battuta a zero, Jannik difende il vantaggio con le unghie e con più sicurezza. Un set pari, è un'altra partita, ma non ancora quella che vorremmo.
Tornano i fantasmi: un diritto fuori di millimetri, una racchetta sbattuta per terra, segnali di nervosismo per un match che sfugge un'altra volta. Carlos si accende e si spegne a corrente alternata, ma è il servizio che continua a fare la differenza: la prima palla di Jannik non fa quasi mai male, la seconda è un rischio consapevole, a ogni turno si parte ad handicap e il conteggio dei break subiti comincia a diventare un macigno su una partita azzurro sbiadito. E quel che fa ancora peggio e che Alcaraz sembra aver trovato un antidoto, come aveva promesso alla vigilia: il suo rovescio lungolinea è kriptonite, il diritto dal centro è sentenza, gli errori gratuiti del rivale fanno il resto. I tentativi di resistenza vengono ricacciati in gola da recuperi impossibili: la lotta diventa, questa volta, impari, e un doppio fallo a cui segue un diritto troppo lungo è, sul 2-2 del quarto set, il sigillo di una giornata no. Capita, soprattutto quando Alcaraz lascia pochi appigli a cui aggrapparsi.
Finisce dunque con Carlos in estasi e con un abbraccio meraviglioso: per lui è il sesto Slam a soli 22 anni, la decima vittoria in 15 incroci e, appunto, il successo che gli permette di tornare davanti in classifica, alla fine di una lunga rincorsa agevolata dai tre mesi in cui Jannik è
stato costretto a guardare. Finisce anche 2 Major per uno: non è un dramma, si diceva, ma certo c'è un po' di tristezza. Per fortuna oggi è già domani, e nel tennis di Sinner c'è solo un modo di rifarsi: si torna a lavorare.