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All'Italia non piace il classico Sesto anno di digiuno totale

A Bergamo vince Martin che all'ultima curva sorprende i migliori Aru sta con i big ma non sa piazzare lo spunto finale. Il resto è buio

All'Italia non piace il classico Sesto anno di digiuno totale

nostro inviato a Bergamo

La sensazione è ben triste, la sensazione è questa: che potremmo correre ancora centomila superclassiche senza riuscire mai a vincerne una. Anche quest'anno percorso netto: zero successi, mai un italiano nemmeno tra i primi tre. E fanno sei stagioni tonde tonde di digiuno totale. L'ultimo a suonare l'inno di Mameli resta Damiano Cunego, Lombardia 2008. Dopo il mondiale di domenica scorsa concluso nell'anonimato più avvilente, nessuno si faceva illusioni che una settimana dopo diventassimo fenomeni. Nessuno s'illudeva e nessuno ha dovuto ricredersi. Anche la classica monumento più dura e più completa, benchè stavolta attutita dal bel tempo, finisce con un potente schiaffo alle nostre ambizioni e alla nostra reputazione. Il Lombardia, questo leale Lombardia che prima seleziona il gruppo con le sue spietate prove di sopravvivenza e quindi scodella i migliori verso il bellissimo finale nella Bergamo medievale, pure questo Lombardia gira la schiena all'Italia. Nel gruppetto dei supereroi, vince il più scaltro e il più coraggioso: l'irlandese Daniel Martin, corridore che sta studiando da campione, nipote diretto del famoso Stephen Roche che scippò il Giro a Visentini, finora noto in Italia per la memorabile caduta nei chilometri iniziali del Giro di quest'anno, proprio sulle strade della partenza irlandese. Che sia un'ottima ipotesi di campione, ma con una personalissima propensione a misurare l'asfalto di faccia, l'aveva peraltro dimostrato anche un mese prima, alla Liegi-Bastogne-Liegi, niente meno, cadendo nell'ultima curva quando ormai fiutava profumo di trionfo.

Soltanto chi si rialza dalle cadute può battere il destino: non è Confucio, è una regola basilare della vita. Martin non si è mai sognato di rassegnarsi, di piangersi addosso, di ripiegare nella calimerite vittimista di tanti tipi umani. Il Lombardia, corsa per gente vera, s'incarica finalmente di premiare cotanta tenacia. Stavolta Martin non cade all'ultima curva. Stavolta dall'ultima curva sbuca per sorprendere tutta la compagnia aristocratica dei migliori. Pochi metri di vantaggio e vittoria in solitudine. Pochi metri per rendere ancora vagamente ridicola, tecnicamente scandalosa, la sconfitta di Valverde, puntualmente capace di buttare al vento la più propizia delle occasioni, cioè arrivo allo sprint di un gruppo ristretto, la sua specialità. "Quando è partito Martin - spiega lo spagnolo - nessuno aveva compagni per farlo inseguire. Ci siamo fermati un attimo e lui è andato". Ma va? Ma tu guarda. Lo sanno anche alla materna che nel finale il più debole allo sprint ci prova, perso per perso meglio provare a vincere. Tutti sapevano che Martin aveva il dovere e il piacere di provarci, tutti però si dicono sorpresi. Che lo dica persino Valverde, il re delle occasioni mancate (sei volte sul podio del Mondiale, mai oro), secondo pure l'anno scorso al Lombardia, ha solo il sapore di una penosa conferma: i talenti, nelle mani di certa gente, sono buttati via. Però attenzione: Valverde si dice felice perché con questo ennesimo piazzamento si consacra numero uno del ranking mondiale. Domanda disinteressata: ma ci è o ci fa?

Allora meglio noi, che perdiamo sempre senza patetiche consolazioni e senza brucianti rimorsi. Il nostro ragazzo migliore, Aru, nel finale è bravo a stare con i big, dove starà tutta la carriera, ma ancora una volta dimostra che neppure lui ha la sparata necessaria in certi finali. Una conferma, niente di sconvolgente. Il suo posto vero è nei grandi giri. Lì lo ritroveremo a partire già da quest'oggi pomeriggio, quando a Milano sarà presentato il prossimo Giro d'Italia.

E' lì, davanti alla prima carta geografica, che comincia il lavoro per arrivare lontano, destinazione maglia rosa.

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