Sport

Bernal, il Tour e il ciclismo di altri mondi

Bernal, il Tour e il ciclismo di altri mondi

In principio era Cochise Rodriguez, all'anagrafe Martin Emilio, gregario di Felice Gimondi negli anni Settanta. Era uno di quei nomi che piaceva molto ad Adriano De Zan e lui gli offrì l'occasione di esaltarlo con un paio di vittorie al Giro d'Italia, la prima di un colombiano a Forte dei Marmi nel '73 su Basso e De Vlaeminck. Ai tempi Cochise sembrava un fenomeno paranormale in un ciclismo che si correva in poche nazioni europee.

Ma a quasi cinquant'anni di distanza i figli di Cochise si sono moltiplicati e hanno segnato un'incredibile inversione di rotta: dopo l'epopea britannica (quella di Wiggins, Froome, Thomas, Yates) sta per spuntare nelle corse a tappe l'era sudamericana. Dopo un ecuadoriano al Giro (Richard Carapaz) ecco un colombiano al Tour (Egan Bernal), in attesa di vedere a chi finirà la Vuelta. E se al Giro aveva già trionfato un sudamericano (Quintana nel 2014), al Tour è stata una prima assoluta di un continente che negli ultimi anni ha scalato (nel vero senso della parola) il ciclismo mondiale.

Una crescita esponenziale, soprattutto colombiana (20 tappe al Tour, la prima con Lucho Herrera, nel 1984 all'Alpe d'Huez, e 29 al Giro), ma anche venezuelana, ecuadoriana e persino argentina e brasiliana (un tal Ribeiro al Tour del '91). Soprattutto grandi arrampicatori (Rujano, Uran, Parra, primo sul podio al Tour nell'88, Chaves, lo stesso Quintana), spesso frenati dalle discese. Fino a Bernal e Carapaz. Padroni dei grandi giri e magari tra un po' anche delle classiche. L'uomo per sfatare il tabù ce l'hanno già, Fernando Gaviria. Al Sudamerica manca un Monumento o un Mondiale dove è arrivato al massimo un 4° posto (Mejia nel '91 di Bugno).

Ma Bernal, Carapaz e Lopez (miglior giovane degli ultimi due Giri) hanno tutto per farcela.

Commenti