Avanza la "goal economy" ma senza riforme in Serie A non ci arriverà

Fondi e capitali esteri sono sempre più interessati ai rendimenti del business del calcio. Un libro racconta modelli e strategie del pallone globale

Il calcio è una miniera d'oro a saperlo gestire. E non solo a livello di «dividendi sociali e politici», come spiega Marco Bellinazzo autore di Goal Economy (Baldini&Castoldi, 450 pagine, 19 euro) ma soprattutto economici e finanziari. Lo dimostra l'interesse per club blasonati e giovani promesse da parte di fondi interessati a rendimenti ritenuti superiori rispetto a investimenti più convenzionali. Tutto sta appunto ad adottare una visione strategica e di sistema in grado di rivalutare gli investimenti effettuati nel tempo. La strada non è priva di ostacoli visto che le 54 top division europee hanno registrato, secondo l'ultimo ReportCalcio pubblicato da Pwc con Arel, una perdita di 800 milioni di euro su un fatturato di 15 miliardi.

In effetti l'ultima escalation a cui si è assistito per la recente cessione dei diritti tv della Premier league in Gran Bretagna ha evidenziato il potenziale economico del comparto. Per il triennio 2016-19 la Premier ha strappato 6,9 miliardi, il doppio rispetto ai tre del triennio precedente (nel 1992 erano 250 milioni su un arco quinquennale). Si tratta di un livello molto più vicino al football americano dell'Nfl (2,8 miliardi sul 2016) che non al calcio italiano (1,2 miliardi l'anno). Non è un caso. L'ascesa della Premier è frutto di una serie di riforme decise a Londra negli Anni Novanta, che hanno portato una rinascita del calcio inglese tale da convincere magnati come il russo Roman Abramovich (nel Chelsea), l'uzbeko Alisher Usmanov (nell'Arsenal), lo sceicco Al Mansour dell'Abu Dhabi United Group for Development and Investment (nel Manchester City) e persino il leggendario finanziere George Soros (entrato due anni fa nel Manchester United con il 7,9%) a investire nei club locali portando una nuova visione manageriale che ha reso il campionato inglese un torneo globale.

I cardini su cui il calcio inglese è divenuto un «iconic british business» sono tre: stadi più sicuri e di proprietà dei club che attraggono eventi, famiglie e turisti; incremento del merchandising; ripartizione alla pari o quasi dai diritti tv, così da sviluppare l'intera Premier (il rapporto tra il primo club in classifica e l'ultimo è di 1,53 rispetto al 5 registrato nella Serie A). Il calcio italiano, con poche eccezioni, non ha saputo finora innovarsi in questa direzione, perdendo sempre più «appeal» a livello internazionale e imboccando la strada della deriva.

Il settore, che pure è tra le prime dieci industrie del Paese con un valore complessivo di 13 miliardi (2,29 la sola Serie A), tra recessione e mancanza di visione strategia dei club, non vive un periodo felice, con default (l'ultimo, a marzo, è stato quello del Parma e nel decennio si contano oltre un centinaio di crac), bilanci in profondo rosso (317 milioni di perdite cumulate, di cui 186 milioni in Serie A), eccessivo indebitamento (sulle spalle del sistema pesano 3,7 miliardi di debiti, di cui 3,09 per la sola Serie A) e, di contro, sotto patrimonializzazione (pari complessivamente a 273 milioni). Quanto al futuro, in mancanza di riforme, è probabile che il calcio tricolore prosegua un lento, inesorabile, declino. «Il rischio è quello di diventare una Lega Pro internazionale, palestra per gli imprenditori stranieri desiderosi di apprendere i rudimenti del calcio per poi dar vita al business nei rispettivi Paesi di origine» sostiene Bellinazzo. Imprenditori e fondi di Paesi finora privi di forte tradizione calcistica (Usa, Cina, Corea del Sud, India, Medio Oriente) fiutando la «goal economy» hanno deciso di investire fior di risorse pur di far decollare i rispettivi campionati e gli affari collaterali. Tanto da farne in molti casi una ragione di Stato.

Come in Cina, che punta ai Mondiali 2026, o come negli Usa, dove la mancata assegnazione per il 2022 della Coppa del Mondo ha scatenato una guerra di polizia internazionale. Ragioni sportive? Più che altro calcio-dollari. Il football moderno conclude Bellinazzo, non è più «un semplice gioco a nessuna latitudine». Ma piuttosto un «soggetto industriale e, in definiva, politico».

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