Una vita diabolica. Aggettivo forse scontato, ma non se lo usa il diretto interessato, Vincenzo Esposito detto Enzo o Enzino, uno di quei personaggi che, agli occhi della gente, restano sempre giovani. E invece oggi Esposito, El Diablo del basket, compie 50 anni e li compie in un raro periodo di pausa, dopo le dimissioni da allenatore di Sassari del mese scorso. «È però una ricorrenza che non mi sconvolge e non mi coinvolge. Avendo iniziato a fare il professionista a 15 anni ed avendo esordito in Nazionale a 19, tutte le tappe vengono un po' sfalsate». Una vita nel basket, una vita, appunto, diabolica. «Certo: ho vissuto tante situazioni sempre al massimo, in maniera super sincera, spontanea, nulla, o quasi nulla, di programmato. Voluto tutto, fortemente, ma mai scontato».
Come la sua annata nella Nba a Toronto, 1995-96, secondo italiano in campo (Stefano Rusconi, a Phoenix, lo ha preceduto di pochi giorni), primo a segnare, e autore di una memorabile serata da 18 punti a New York, al Madison Square Garden. Avrebbe potuto debuttare alla prima partita, ma come raccontò via telefono a chi stava partendo dall'Italia per andarlo a vedere «mi hanno detto che sono infortunato». Ovvero: i Raptors avevano bisogno di inserire nella rosa di quella gara del 3 novembre 1995 un altro giocatore, e finsero per Enzino un infortunio. Era una Nba non ancora globalizzata, e c'era diffidenza. «È stato difficile e complicato, anche altri europei di grande valore come lo stesso Danilovic, rimasto poco più di due anni, hanno lasciato le penne in un ambiente che era ancora ignorante e chiuso nei confronti dei giocatori non americani».
Sono passati 23 anni ma di quella stagione Nba si parla ancora, forse fin troppo: «l'80% delle persone che si muovono intorno a me, e non sono addette ai lavori, torna sempre su quell'argomento, magari trascurando altri aspetti importanti». Ad esempio, che un presunto esempio di anarchia tattica, di istinto non allenabile, di spontaneità tecnica sia diventato il primo e unico nella storia del basket italiano a vincere sia il trofeo di miglior giocatore (due volte, 1999 e 2000) sia di miglior allenatore della Serie A (2017, a Pistoia), oltre ad essere il quarto realizzatore di sempre in campionato. «Io non ci avevo pensato ma me lo disse anche Carlo Recalcati lo scorso anno: quello di miglior coach è un riconoscimento che vale doppio, vista la carriera che hai avuto come giocatore».
A proposito di talento: quanti potenziali Esposito ha visto, da allenatore? «Sono cambiati i tempi, il basket è cambiato, e tecnicamente non ho mai incontrato un giocatore che mi facesse rivivere me stesso giocatore. O forse Terran Petteway, che ho avuto a Pistoia e Sassari». Uno scudetto (purtroppo) irripetibile, a Caserta nel 1991, accanto a colleghi con cui è tuttora in contatto.
Compreso il capitano, Nando Gentile, il cui figlio Alessandro, ora all'Estudiantes in Spagna, è «un ragazzo che ho visto crescere, è un giocatore che anche se giovanissimo in alcuni momenti della carriera ha vissuto quello che ho vissuto io. Le ultime scelte che ha provato a fare tecnicamente negli ultimi anni le condivido in pieno, e sembra che finalmente al terzo o quarto tentativo abbia infilato quello giusto».
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