Fate vedere la tv a Humberto Munoz Castro: quei ragazzi colombiani che giocano, che vincono, che sfidano il Brasile sono la sua prigione. «Deve guardare che cosa c'hai tolto per vent'anni», scrivono i quotidiani. Lui è l'assassino di un Paese, prima che di una persona. Uccise Andres Escobar la notte del 2 luglio 1994, a Medellin, fuori da night club El Indio. Gli sparò mentre lo faceva urlava «gooooool» con la parola trascinata, come fanno i telecronisti sudamericani. Doveva coprire con la voce i sei colpi scaricati sul corpo del difensore che con l'autogol contro gli Stati Uniti fece eliminare la Colombia dal Mondiale 1994. Il motivo non era quello, avrebbe detto poi. Peggio, se volete. Un motivo non c'era: aveva ucciso un uomo perché lo stava sfottendo per l'autogol e quello ebbe il coraggio di dirgli «basta, amigo». Basta? Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Muori.
Vent'anni dopo, la Colombia gioca per sé, finalmente. Andres è un monumento che ha smesso di centrare solo col pallone: è il simbolo di un Paese che non poteva rimanere così. Un martire. È la dignità da cui ha ricominciato una generazione che quel 2 luglio 1994 non riusciva ancora a capire che cosa fosse successo.
James Rodriguez aveva tre anni, Juan Cuadrado sei. Che cosa volete che capissero, poi? Prima dell'omicidio di Escobar a Medellin c'erano stati quattromila morti ammazzati in sette mesi. Quattromila. Morire a pistolettate era normale, scontato, ovvio. Andres fu la vittima della banalità del male. Aveva chiesto scusa per l'autogol e aveva anche scritto su El Tiempo: «La vita non finisce qui». Senza saperlo, parlava solo di quella degli altri.
Adesso per le strade del Mondiale brasiliano ci sono centocinquantamila colombiani: 55 mila hanno i biglietti, gli altri no, sono qui per spirito di appartenenza, per l'orgoglio ritrovato, per l'osmosi con una Nazionale che è arrivata esattamente lì dove avrebbe dovuto arrivare quella del 1994. C'erano Asprilla, Valderrama, Valencia, Rincon, c'era Maturana in panchina. Pelé disse: «Possono vincere il Mondiale». Uscirono al primo turno, dopo l'autogol di Escobar. C'era pure Mondragon, secondo portiere allora e secondo portiere adesso: 43 anni e unica linea di continuità con quella squadra. I quarti di finale contro il Brasile di venerdì sono il punto più alto raggiunto dalla Colombia in una coppa del mondo. Eccolo, un calcio e un paese usciti dalla vergogna e dall'imbarazzo. Hanno talento, forza, spirito. Hanno la consapevolezza che il calcio non è il mezzo per uscire dal disonore, ma il contrario. Perché quella squadra di vent'anni fa era schiava dei suoi rapporti con i narcotrafficanti: nelle partite di qualificazione al Mondiale i giocatori andavano a ringraziare Pablo Escobar, il boss dei boss, il quale aveva finanziato la costruzione di tutti i campi di calcio delle periferie più degradate di Medellin. L'hanno chiamato narcofutbol perché questo era: una commistione continua, un rapporto viziato e malato. Il Paese guardava e fino all'omicidio di Andres, taceva. «Quel giorno mi sono vergognato di essere colombiano per la prima e unica volta», ha detto al Wall Street Journal Enrique Santos, giornalista e fratello del presidente della Repubblica della Colombia.
Oggi il disonore è diventato orgoglio. Del calcio e del resto. Il Paese è rinato: una crescita economica non rapida, ma costante, continuata anche quando tutto il resto del mondo aveva dei contraccolpi. Poi la guerra alle Farc e al narcotraffico. Uno dei simboli è proprio Medellin, la città dell'omicidio di Escobar: l'Economist ha raccontato che negli ultimi anni la povertà è diminuita, colpisce solo il 19,2 per cento dei residenti, sotto anche alla media di molte aree metropolitane del Sudamerica. L'aspettativa di vita è cresciuta. Il tasso di omicidi, che era di 381 ogni 100 mila abitanti nel 1991, è sceso a meno di 50. A ricostruire l'identità è servito anche un piano urbanistico imponente: la metropolitan non esisteva e ora c'è, così come c'è un sistema di sorveglianza capillare, è stato costruito un sistema di lunghe scale mobili esterne e, nel 2004, un sistema di cabinovie chiamato Metrocable, che collega le zone più popolari sulle colline al centro abbreviando il tragitto di circa due ore, poi librerie, sale concerto, luoghi per l'intrattenimento pubblico. Poi i campi di calcio che non sono pagati più dai narcotrafficanti ma dalla municipalità o dai privati. La banalità del bene ha eroso quella del male. Lo sport succhia l'anima dei Paesi e poi la sputa negli stadi, sulle strade del ciclismo. Carlos Quintana, vincitore del Giro d'Italia è un esempio. I ragazzi della nazionale pure. Lo dice Carlos Valderrama, incontrato sulla spiaggia di Barra: «Sono bravi ragazzi, sono giovani, sono diversi da noi. Sono più liberi. Hanno l'orgoglio di una generazione che vuole fare la storia». Quelli della generazione Escobar erano costretti a rimanere in Colombia. Questi sono andati all'estero, in Europa. Francia, Italia, Inghilerra, Spagna. Sono tornati per il Mondiale, per la Nazionale, per il Paese. La partita contro l'Uruguay è stata l'evento più visto della storia della tv colombiana.
I quarti di finale contro il Brasile cancelleranno il record. Sono abbastanza, non ancora tutto. Centocinquantamila colombiani nelle strade delle città del Mondiale contro duecento milioni di brasiliani. Sembra niente. Sembra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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