C'era una volta l'epoca in cui i giornalisti riuscivano a parlare, intervistare, confrontarsi facilmente con calciatori e dirigenti del pallone. Parliamo di mondo italiano. Le interviste facilitavano il capirsi, anche per il futuro. Fra l'altro in estate, ad inizio preparazione, era perfino più facile, i rapporti più sciolti: non alimentati da tensioni di partite vinte o perse. Oggi tutto questo non c'è più. Direte: colpa dei social. Ma non solo. I club, specie in serie A, trattano i cronisti con fastidio (anche prima ma con più classe), evitano appena possibile le conferenze, centellinano interviste, salvo non siano quelle a pagamento pretese dalle televisioni. Alla stampa vien presentato un mondo di plastica: chiacchiere a solo uso e consumo dei media societari, presenze contingentate, domande limitate. Si aprono i ritiri e si richiudono le porte. Troppi divieti. E i giornalisti stanno un po' troppo zitti. Le interviste plastificate, davanti ad un microfono e con minima interlocuzione, sono regola: prendere o lasciare. Nel Pre Covid c'era più attenzione alla convivenza. I club si sono approfittati della pandemia per tramutare l'emergenza in regola. L'Ussi (Unione stampa sportiva italiana) ha denunciato il trend, visti certi atteggiamenti di inizio stagione degli uffici stampa. Gli stadi sono tornati alla normalità, tranne che per il lavoro della stampa.
O, perlomeno, benvenuto solo chi paga. Diceva un direttore del Giornale che i giornalisti hanno la forza della penna e delle immagini: colpa nostra se non sappiamo usarla. D'accordo: non siamo dei Tex Willer, ma smettiamola di riciclare la plastica.
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