Roma Scuse per ora non ne sono arrivate. Scuse a Simone Inzaghi, che appena cinque mesi fa veniva così apostrofato in un comunicato della curva laziale: «Piccolo uomo che, da professionista quale dice di essere, si sarebbe dovuto sottrarre al balletto delle panchine tra Lazio e Salernitana in attesa di sapere se ereditare quella più importante. L'uomo di Lotito dimostri agli altri quel che vale, a noi lo ha già dimostrato e vale veramente poco».
Erano i giorni della rabbia: Bielsa aveva appena fatto dietrofront stracciando un contratto firmato e la Lazio, a poche ore dalla partenza per il ritiro, si era ritrovata senza allenatore. Il «Loco» aveva rinfacciato al presidente di non voler rinforzare la squadra come promesso e molti tifosi biancocelesti, delusi dalla mancanza di ambizioni del club, si identificavano in quel rifiuto facendone un'icona dell'antilotitismo.
A quel punto Lotito ha capito che non sarebbe bastato un Prandelli a placare il malcontento e quindi tanto valeva essere impopolari: squadra a Inzaghi (che comunque l'aveva ben condotta nel finale di stagione viaggiando a 1,71 punti di media contro l'1,35 di Pioli) e solito mercato «moralizzato», finanziato dalla cessione di Candreva. La colpa di Simone? Aver accettato di essere dirottato su una panchina di serie A, di continuare ad allenare la squadra della sua vita anziché ripartire da Salerno.
È stata una delle tante «sliding doors» fortunate della carriera di Inzaghino, che da calciatore finì alla Lazio dopo averle segnato quando vestiva la maglia del Piacenza. Visse sempre nell'ombra del fratello Pippo però proprio a lui - inzuppato dalla pioggia di Perugia - sottrasse lo scudetto che lo fece entrare nel pantheon laziale: non era un purosangue ma su quella stagione lasciò l'autografo su 19 gol, 7 pesantissimi in campionato e 9 in Champions di cui 4 in una sola notte.
Simone Inzaghi è tuttora il miglior marcatore della storia europea della Lazio, dopo il tricolore ha portato a casa anche tre coppe Italia e due Supercoppe e un po' per caso è diventato una bandiera. Perché quando Cragnotti cade in disgrazia e la società è costretta a vendere i suoi campioni, lui, che nel frattempo aveva avuto dalla romana Alessia Marcuzzi il primogenito Tommaso, decide di «spalmare» il suo robusto stipendio pur di non lasciare la Capitale. Accetta di fare molta panchina, va un paio di volte in prestito e dopo essersi ritirato inizia ad allenare i ragazzini. Con gli Allievi regionali vince subito, perciò quando a gennaio 2014 l'allenatore della Primavera Bollini diventa il vice di Reja, Simone è pronto per infilarsi in un'altra «sliding door»: eredita la sua squadra scudettata, le fa vincere una Supercoppa e due coppe Italia.
Anche se coi giovani se l'era cavata meglio Simone, l'occasione di allenare in A capita prima a Pippo, ma stavolta il fratello predestinato si brucia nel Milan degli equivoci. La pazienza del mite Simone, invece, dopo 17 anni vissuti nel segno dell'aquila viene premiata da altri due incastri fortunati: prima l'esonero di Pioli e poi il ripensamento di Bielsa.
Oggi la Lazio ha solo un punto in meno di quella che vinse lo scudetto e 11 in più dell'anno scorso, nessuno è riuscito a migliorarsi così tanto.
Dopo il ko nel derby Inzaghino si è rialzato e può finalmente concedersi un po' d'orgoglio: «A giugno mi diede fastidio sentir parlare di sogno Sampaoli o sogno Bielsa, non so quanto avrebbero guadagnato più di me (circa due milioni, ndr) ma la riconferma me l'ero meritata sul campo». E chissà che a fine anno, se tutto andrà bene, non arrivino anche le scuse degli ultras di poca fede...
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