
«P reparati, domenica fai gli spogliatoi a Brera». Giulio Signori accompagnò con un mezzo ghigno l'annuncio che, in altri tempi, sarebbe stato un premio. In verità trattavasi del primo giorno di scuola, dell'esordio mio a fianco del Maestro. Studiai a memoria la formazione del Como, colleghi perfidi mi avevano messo sull'avviso che avrei dovuto annotare ogni respiro dei lariani e trasmetterlo a Brera. La domenica di marzo era di quel sole milanese che non scalda nemmeno i capelli. La borsa tattica era gonfia di sigari, sigarette e pipa, Boninsegna fece quello che sempre ha saputo fare, l'Inter sprecò con Pavone ma vinse, il Como andò in gol per il 2 a 1: «Chi ha dato la palla a Cappellini?» chiese Giovanni, guardando altrove e aspettando la risposta come un cow boy pronto a estrarre la pistola dalla fondina: «Iachini», replicai sicuro. «E a Iachini?», «Mi sembra Correnti» abbozzai. Ero certo della promozione ma Brera entrò duramente: «Mi sembra? Mi sembra? Lei è qui per servire il giornale, per seguire la partita e non per pensare ad altro e per rispondermi mi sembra». Il sole pallidissimo si fece di fuoco. Così era, così sarebbe stato.
Giovanni Brera non gradiva incertezze, poteva accettare il surplace dei seigiornisti al Vigorelli ma sul pezzo dovevi esserci dal primo all'ultimo secondo. Come era lui, uno chef da cinque stelle capace di produrre piatti di grandissima cucina a velocità da fast food, cartelle una, dieci, cento, rarissimi errori di battitura, corretti con la penna di inchiostro verdastro, fogli bianchi odorosi di tabacco, righe chiare per la dettatura ai dimafonisti, questa era la procedura, un rito, una cerimonia plateale, ribadita dal rumore secco dei tasti della macchina per scrivere, al diavolo le tecnologie silenziose e, dunque, vuote d'anima. Brera seguiva le partite come un tifoso al quale ogni tanto scappava un insulto, era una mezza imprecazione, un camadòi, un bestia, va scuà il mar, indirizzato addirittura a calciatori che gli stavano in cuore, per generosità e ceppo di origine, Domenghini tra questi. Vennero altre cento, mille Inter-Como al Giorno e poi al Giornale, altre cento e mille tavolate di risotto e Barbaresco, altre cento e mille lezioni sulla coppa mantovana, immersa nel tino del vino, la casa era quella di Bosisio Parini, la sera non finì mai, le bottiglie quelle no, destinate ad esaurirsi nel contenuto. Era la sua voglia di vivere e di convivere, ma non sempre, animale solitario e, insieme, festoso, come un setter da caccia, pronto a usmare, puntare, consegnare e ritirarsi, Giovanni Brera è un pezzo grande della storia del giornalismo lombardo e italiano e di Francia. Era stato il sogno, l'immaginazione di me studente liceale con il Guerino nascosto sotto il banco, perché quel foglio era proibito in classe.
Brera, nell'Arcimatto, mi divertiva con i giochi di parole, scrisse che Corso (Mario), non certo un fulmine di guerra, per questo era il participio passato del verbo correre. Quando l'interista si confrontò con il romanista Cordova, di uguale passo, Brera annotò che i due erano lenti a contatto. Sogno e fantasia realizzate, trent'anni dopo, dinanzi a quella figura tosta, possente, potente, magistrale. Giovanni abbassava il capo, quasi a scrutarti meglio, non sapevi se stesse per partire un sacramento o una carezza. Mi ricordo la sua forte commozione durante la Domenica Sportiva nel dicembre del Sessantanove. Qualche ora prima se ne era andato, all'età di cinquantadue anni, Adolfo Consolini, il più grande discobolo della storia italiana, oro a Londra, amico grande di Giovanni che, prima del folber, scriveva di atletica leggera, di ciclismo e di boxe. Invitarono Brera a commemorare l'atleta, la voce prese a tremare e le lacrime scivolarono sul viso; scusandosi, quasi con vergogna, Giovanni si alzò dalla sedia e abbandonò lo studio, volendo tenere privato il dolore fortissimo. Una tarda sera di estate francese, durante il campionato europeo dell'Ottantaquattro, eravamo in quattro alla ricerca di un ristorante che potesse nutrirci, Parigi è la ville lumiére ma si era fatto davvero tardi, dopo la partita. Nino Petrone, Gianni Mura, il sottoscritto, facevamo da paggi al Maestro che si fermò di colpo dinanzi all'insegna di un ristorante russo: «Un mio antenato era uno storione, dunque qui c'è il caviale, un parente, entriamo!». Imprecando, in silenzio, all'araldica di famiglia, scendemmo i gradini verso una sala completamente deserta (non credo soltanto per l'orario). C'era un pianista che suonava disperato, le note strazianti furono immediatamente spente da una astuta lauta mancia di Giovanni; venimmo informati dell'assenza di pane, sostituito da riso soffiato ma c'era soprattutto una cameriera molto dotata nel petto, lei, sì, impressionò la nostra gang, Brera in capo e i complimenti furono irripetibili. In verità la signorina o signora veniva dal Friuli, quando rivelò le origini, l'atmosfera si fece improvvisamente rigida e il pianista tentò di proporre una ballata.
Il debutto di Giovanni a Il Giornale Nuovo fu grottesco e anticipato rispetto ai tempi del contratto. Era morto Giuseppe Meazza e Indro Montanelli capì che sarebbe stata quella la migliore prima volta per il migliore giornalista di sport. Il Vecchio come lo chiamavamo noi giovani redattori, stava in vacanza a Cortina, toccò al capo redattore centrale, il variopinto di carnagione Leopoldo Sofisti, leggere al telefono, occhiello, titolo e sommario, dettato dallo stesso Brera che usò il termine folber (il gioco del calcio in dialetto lombardo) e la verduratta (la fruttivendola o ortolana) aprendo nella stessa frase, più volte come era sua abitudine, i due punti. Va da sé che Montanelli ascoltasse mugugnando mentre lo stesso Sofisti, con il sottoscritto al fianco nel tentativo di conforto ultimo, scuoteva il capo ma, infine, mandò in stampa l'elaborato: un testo magnifico, come sempre. Vennero i giorni del miele e del cianuro con un altro Giovanni, Arpino. L'amore si trasformò in odio, noi, come controllori di volo, osservavamo le sfide, registravamo la ferocia di parole. Il mondiale in Spagna fu vissuto come un derby acido, a distanza, tra l'altro Arpino era afflitto da un trigemino dolorosissimo mentre Brera si concedeva partite a scopa con Mario Soldati; il pubblico di cronisti, Beppe Viola tra questi, assisteva a baruffe strepitose dei contendenti che agitavano braci di sigari toscani e madonne varie al cielo. Brera promise di farsi frate in caso di vittoria dell'Italia.
Il destino volle che Bearzot e i suoi furono campioni del mondo. Non si ebbero notizie di fra Giovanni da San Zenone ma di altre lunghe notti, tra amici e vino e cibo e parole. Prima di Codogno. Restano altre pagine, altre memorie. E, ancora una volta, richiudo il diario.