Il mio saluto al piccolo samurai Nagatomo

Il mio saluto al piccolo samurai Nagatomo

Mi chiamo Yuto Nagatomo. Sono giapponese. Sono un giocatore di calcio e oggi ho segnato il mio primo gol in serie A con l'Inter. Nello stadio di San Siro. Faccio il terzino e sono nato per correre. Fino a perdere il fiato. Sono sempre stato circondato dai pregiudizi. Persino da quelli dei miei connazionali. I miei genitori e i miei amici di Tokyo sorridevano quando raccontavo loro il mio più grande desiderio. «Yuto il calcio non fa per te. Pensa ai cellulari, ai computer, noi siamo forti in quel campo. Nello sport potresti eccellere nelle arti marziali, se proprio ci tieni. Per giocare a pallone sei troppo gracile. Noi del paese del Sol Levante non abbiamo grande tradizione calcistica, lascia stare!». Mi guardavano con compatimento. Hanno fatto di tutto per scoraggiarmi, non volevano che restassi deluso. Ma io ho sorpreso tutti. Ho sempre voluto essere un calciatore. Sognavo di venire in Italia per diventarlo. Mi svegliavo tutte le mattine e mentre andavo al campo degli allenamenti, mi fermavo sotto la gigantografia di Hidetoshi Nakata che troneggia a Ginza e gli parlavo come se fosse in carne e ossa. Come se potesse sentirmi. «Dammi il tuo sinistro», lo supplicavo. Forse fin lì non è arrivato, ma il suo esempio mi ha dato la forza di non arrendermi. Ho esordito nel 2007 con l'FC Tokyo. E poi sono arrivato in Italia. Nel vostro paese i preconcetti sono aumentati. Le ovvietà si sprecavano: i giapponesi sono gente seria, inquadrata. Sono instancabili nel lavoro e esperti nell'arte di copiare i modelli delle marche più famose. Si mettono a fotografare qualsiasi cosa e ridacchiano instupiditi. Non sono adatti per un gioco come il calcio. Quello va bene per gli italiani, per gli inglesi e per i brasiliani. Mi sono sentito ripetere come un disco rotto queste cose da sempre. È più semplice liquidarci così. A noi nipponici non ci ha mai preso molto sul serio nessuno. Ma oggi, quando la palla è entrata in rete, ho visto le cose cambiare. Ne ho saltato uno, dribblato un altro e ho tirato con tutta la forza e la precisione possibile alla sinistra di Eduardo. Il portiere del Genoa non ha potuto fare nulla. Ha seguito il pallone fin sotto la traversa, si è girato ed è rimasto a guardarmi incredulo. Non potevo essere stato io a fare quel movimento da bomber d'area. Io, un piccolo giapponese senza pretese. Invece il bello è che nella mia vita non mi hanno mai visto arrivare. Sai che ci vuole a incutere rispetto quando hai il fisico e la prestanza del brasiliano Maicon? Se l'aspettano tutti. Io invece sono l'eterno sottovalutato. Sono la sorpresa, sono l'imprevedibile. Al gol i miei occhi si sono persi nel bianco della felicità. Il mio Sampei, capitan Zanetti, mi ha fatto l'inchino di rito. I compagni mi hanno abbracciato. Io ho guardato gli spalti. Ho osservato lo sguardo della gente. Non c'era più compiacenza. Aveva lasciato il posto all'ammirazione. Non ero più la mascotte della squadra, ero uno di loro. Mi sono sentito invincibile. E ho pensato al Signor Achille. Quando ero al Cesena lo incontravo sempre in Piazza del Popolo. Stava seduto sulla panchina verde, quella vicino alle bancarelle del mercato.

«Non mulà piccolo samurai, vai come un motore!», mi diceva mentre con la faccia cercava il sole. E io non ci credevo ma ora so che avevi ragione signor Achille. Non dovevo mollare. Perché qualche volta i sogni si avverano.

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