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"Il mio Stelvio a 81 anni e questa Italia in bici che fugge dalla fatica"

L'ex premier: "Ho riscalato la cima Coppi. Eredi di Nibali? I nostri giovani non si sacrificano..."

"Il mio Stelvio a 81 anni e questa Italia in bici che fugge dalla fatica"

A 81 anni ha scalato per la terza volta lo Stelvio, la vetta di Coppi, nonostante il professor Romano Prodi, economista, accademico e per due mandati Presidente del Consiglio, ma anche grande appassionato di ciclismo, abbia fatto il tifo per Gino Bartali. «Fu il primo a conquistarmi e non l'ho mai tradito, neanche con l'avvento del Campionissimo», dice l'ex Premier.

Professore, cosa l'ha portata a scalare lo Stelvio a 81 anni?

«La curiosità. È stato un buon esercizio fisico e mentale. L'ho affrontato da Prato allo Stelvio, fin su in cima ai 2.758 metri. Io e quattro assistenti a farmi compagnia, tra questi anche Giorgio, mio figlio, appassionato ciclista ma molto più abile di suo papà, se non altro per i suoi 49 anni. In ogni caso ce l'ho fatta, in sella alla mia bici muscolare, non certo assistita. L'ho fatto pian pianino, senza fretta e in quel mio lungo risalire ho pensato tra me e me: o le gambe non sono più quelle di una volta o lo Stelvio ha cambiato le sue pendenze».

È arrivato a darsi una risposta?

«Temo che tutto sia riconducibile alle gambe. Però l'importante era arrivare in cima, come avevo già fatto qualche anno prima con l'amico Giorgio Squinzi, il signor Mapei, grande capitano d'industria mancato troppo presto, come pure sua moglie Adriana Spazzoli: con loro condividevo la passione per l'economia e la bicicletta».

Con Squinzi parlava più di ciclismo o di economia?

«Molto più di economia, grazie anche a sua moglie che con me aveva sostenuto la tesi di laurea. La Spazzoli come studentessa era davvero molto brava, che fosse anche la moglie di Squinzi l'ho saputo il giorno che Giorgio me l'ha presentata come tale. La Mapei ciclismo è stata davvero qualcosa di eccezionale e anche con il Sassuolo hanno confermato che il loro modo di operare era sistemico. Non si limitavano a sponsorizzare, ma tutto rientrava in un progetto più ampio, riconducibile ad una visione aziendale oggi portata avanti da Veronica e Marco, i figli».

Torniamo al ciclismo. Oggi per chi le batte il cuore?

«Ho ammirato Pantani, anche se con Marco era difficile avere un rapporto. Era molto chiuso, o meglio, si muoveva in un giro frequentato da pochi. Diciamo che l'interlocuzione con Adorni, Gimondi, Moser e Bugno è stata diversa. Oggi mi sono fermato a Vincenzo Nibali, grande corridore che ha vinto tutto quello che c'era da vincere, al quale purtroppo manca una medaglia olimpica quella di Rio che solo la sfortuna gli ha portato via. Oggi però fatico a dire chi ci possa essere dopo di lui. Il ciclismo attuale è uno sport globalizzato, basta dare una scorsa agli ordini di arrivo dei tre Grandi Giri: nei primi trenta ci saranno almeno quindici nazioni. Al vertice abbiamo due corridori sloveni (Roglic e Pogacar, ndr): queste cose non sono mai casuali. L'Italia del ciclismo è ancora strategica per le sue conoscenze e il suo know-how, ma per il resto è diventata purtroppo periferia».

Cosa si può fare per invertire questa tendenza?

«Ci vuole un campione. Un nuovo Pantani o un nuovo Nibali, ma per ottenere questo occorre investire sui ragazzi: serve un progetto».

La globalizzazione è un bene o un male per il ciclismo?

«Chiaramente è un bene, perché porta economia, interesse e mercato. Però assistiamo ad una globalizzazione tecnica, fatta di squadre, corridori e corse, ma poi l'economia globale del ciclismo è in pratica in mano solo ad un player: il Tour de France. Forse questo non è un bene. Il Giro ha fatto tanto, soprattutto quest'anno, e mi auguro che in futuro questo gap possa essere ridotto».

Oggi il ciclismo sta vivendo un nuovo rinascimento.

«Verissimo, ma è sport di mezza età, in giro non vedo tantissimi ragazzi, però piace ai manager...».

Sarà per questo che scarseggiamo di campioni?

«Penso di si. Il ciclismo è sport duro e di sacrifici e, mi consenta il gioco di parole, i nostri ragazzi faticano ad accettare la fatica: la rifuggono».

Merckx o Gimondi?

«Chiaramente sono per Felice, anche se ho potuto conoscere e apprezzare il Cannibale. Quando ero presidente della Commissione Europea (dal 1999 al 2004, ndr), ho avuto modo di incontrarlo più volte a Bruxelles e ho scoperto un uomo molto attento, preparato e riflessivo. Un giorno gli chiesi: Ma le sue sono osservazioni raffinate, dove ha trovato il tempo di leggere e studiare?. E Merckx di rimando: Quando si pedala, si pensa. E quando si riposa, si legge. Questa cosa mi ha colpito molto e mi ha confermato una mia convinzione: i grandi campioni, per forza di cose, devono essere anche grandi uomini».

Professore, Moser o Saronni?

«Moser, assolutamente».

Bugno o Chiappucci?

«Gianni, mi è sempre risultato più simpatico, come Adorni per esempio. Ma lo sa che con Vittorio ho anche corso? ...».

Ha corso con Adorni?

«Inconsapevolmente, nel senso che quasi trent'anni dopo abbiamo scoperto quasi per caso di aver disputato da ragazzini una crono che il sottoscritto chiuse con un modesto 12° posto e lui, al suo esordio, vinse. Fu divertente scoprire dopo anni questo risultato. Diciamo, però, che alla fine abbiamo fatto entrambi una bella carriera».

Il ciclismo, in questo anno pandemico, è riuscito in ogni caso a restare in equilibrio

«Da quello che sappiamo, possiamo dire che è andato davvero tutto molto bene. A livello teorico, fin quando non avremo studi e statistiche in merito, sappiamo che le corse all'aria aperta sono più che sostenibili.

Più complessa, probabilmente, è l'attività su pista, ma sotto questo aspetto Giro, Tour e Vuelta sono riuscite nell'impresa di concludere corse che non era facilissimo portare in porto. Questa è stata la vittoria più bella».

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