Il day-after è tipico dei confusi, quasi dei rimbambiti. Verrebbe da dire dei coglioni, parafrasando Ancelotti. Nel morale, e quindi psicologicamente, il Napoli esce distrutto da Anfield, che doveva essere terra di sogni e di conquiste. D'accordo la sfortuna, il miracolo di Alisson, i centimetri decisivi che sono mancati prima ad Hamsik e poi a Callejon ma chi ha occhi per vedere una partita come va analizzata, sa bene che non sono stati questi gli episodi decisivi. Il Napoli è sparito dal campo per un'ora prima di rimettervi piede quando i reds avevano speso tutto ed erano attaccati alla bombola dell'ossigeno. È vero, di fronte c'era la capolista della Premier e la finalista dell'ultima Champions ma dall'altra parte non c'era il Napoli della gara di andata, quello che non aveva concesso nemmeno un tiro agli inglesi. O quello sontuoso di Parigi, raggiunto dal Psg in pieno recupero. Bensì una squadra timorosa, incapace di reggere fisicamente al pressing, lunga tra i reparti, suicida nel mettere Mario Rui ad inseguire Salah, assente nei suoi uomini più rappresentativi. Chi ha visto Hamsik, Callejon, Mertens, Insigne trascinare gli altri, alzi la mano. Fumosi, pasticcioni, timidi nella costruzione del gioco, zeppi di errori in fase di uscita con la palla al piede. Un sontuoso Koulibaly e mezzo Allan, in questo panorama così modesto, non avrebbero potuto fare di più.
«Se non passiamo il turno siamo coglioni» aveva detto Carletto prima della Stella Rossa, sicuro del fatto suo. Non aveva messo in conto il gol che i serbi avrebbero segnato sul 3-0, non voleva dare importanza a quello di Di Maria al 93' e allontanava con la forza del pensiero lo 0-0 di Belgrado.
Ci può stare che Anfield metta a nudo i limiti enormi di personalità di una squadra ma non è a Liverpool che il Napoli ha buttato via la qualificazione. È accaduto prima: assurdo comandare il girone per cinque giornate e crollare all'ultimo giro, così è difficile trovare gli aggettivi giusti. O forse è troppo facile?
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