Papi e mami come gli ultrà

Bambini sotto pressione, minacce agli allenatori e risse: arrivano i corsi per aiutare i genitori a darsi una calmata

Papi e mami come gli ultrà

I nsulti agli arbitri, minacce agli allenatori, risse sugli spalti. Addirittura il Daspo per i tifosi più scatenati, con il divieto di assistere alle partite. Cronache di ordinaria follia che non arrivano però dai grandi stadi, ma dai campetti di provincia delle categorie inferiori. E più giù, nella piramide dell’agonismo, fino a turbare la pace degli oratori. Dove gli ultrà della «porta» accanto sono papà e mamma e il motivo del contendere sono le gesta sportive di bambini dai cinque-sei anni in su. Il fenomeno non riguarda soltanto il mondo del calcio, perché episodi di violenza e intolleranza si registrano anche nei palazzetti del volley o del basket. Eppure i numeri del pallone sono quelli che impressionano di più e toccano la maggioranza delle famiglie italiane: quasi settecentomila tesserati nel settore giovanile e scolastico (praticamente un maschio su cinque dai 5 ai 16 anni, uno su quattro nella fascia 11-12 anni), 3.330 società, 46mila squadre, oltre settemila scuole calcio con rette annuali da 500-600 euro in media. Un «pulcino» su sessanta potrà ambire a un contratto da professionista, uno su cinquemila esordirà in serie A. La selezione è spietata, come la concorrenza dei baby calciatori provenienti dall’estero. La cruna dell’ago è strettissima, tuttavia molti genitori, davanti al piccoletto che palleggia in soggiorno, gongolano all’idea di avere in casa il prossimo Francesco Totti. Prendendo spesso enormi abbagli.

VIETATO SBAGLIARE «Sognare è legittimo, altro discorso è illudersi, illudere e caricare di aspettative eccessive i ragazzi», avverte Roberto Mauri, psicologo e formatore del Centro Sportivo Italiano. Rispetto al passato qualcosa è cambiato, e in peggio. «L’impatto emotivo sull’attività sportiva non è mai stato così dirompente - spiega Mauri -. Questa è la prima generazione che investe così tanto nei propri figli: incarnano la possibilità di affermarsi e, con la media di uno massimo due bambini per coppia, si scommette tutto e non ci si può permettere di fallire. Mai come oggi lo sport è spettacolo, un palcoscenico su cui esibirsi e ostentare, basti pensare a quello che condividiamo ogni giorno sui social network... È vero, le famiglie sbagliano, bisogna ammettere però che spesso vengono trascurate dalle società, quando si limitano a incassare le quote di iscrizione e poi le lasciano alla mercé di persone non sempre oneste, come alcuni procuratori». Serve un ribaltamento di prospettiva. «Quando un papà porta il bimbo a scuola calcio, il primo ad iscriversi in realtà è proprio lui. Perciò i genitori vanno accompagnati in un percorso di (ri)educazione al tifo e alla sportività. Mamme e papà dovrebbero comprendere che, dal momento in cui i figli scendono in campo, devono essere disposti a cedere pezzi della patria potestà all’allenatore e all’arbitro, figure a cui i ragazzini si affidano quasi istintivamente. Vedere il proprio padre che inveisce contro l’uno o contro l’altro - fa notare Mauri - crea in loro un senso di spiazzamento e di disagio fortissimi». Meccanismi delicati in cui gli allena tori svolgono un ruolo decisivo. Non è questione di patentini, a loro è richiesta una preparazione non esclusivamente tecnica, ma soprattutto psico-pedagogica. E la capacità di condurre per mano i ragazzi nella sfida più difficile, quella della crescita.

FARE LA FORMAZIONE Perché, nella testa di un pre-adolescente, guadagnarsi un posto tra i titolari significa ritagliarsi anche un posto nella vita. Salvo Sacco della S.s.d. Ausonia, società sportiva milanese della galassia Inter che conta più di 700 iscritti nelle diverse categorie, in vent’anni di esperienza sul campo di ragazzi ne ha visti passare a centinaia, dai pulcini agli esordienti. Storie di sogni realizzati, ma anche di delusioni cocenti. «Purtroppo noto che negli ultimi anni è cresciuta tra i genitori l’ansia da prestazione, che traspongono nei figli. Non portano il bambino a scuola calcio perché impari a praticare uno sport e a stare in mezzo ai coetanei, ma per dimostrare a se stessi e agli altri che hanno per le mani un fenomeno. Capita che li trascinino sull’erba senza nemmeno rispettare la volontà dei piccoli, in molti finiscono per subire le scelte dei grandi». E dopo sedute di allenamento sempre più impegnative, ogni «maledetta domenica» la partitella non è un’occasione di svago ma si trasforma in un esame, una prova da superare. «Anche noi allenatori siamo sotto pressione - racconta Sacco -, per quanto i ragazzi più piccoli debbano giocare tutti almeno un tempo, dobbiamo fare delle scelte e lasciare fuori qualcuno. Allora apriti cielo: “Ho perso mezza giornata per accompagnarlo, perché mio figlio non gioca?”, ci aggrediscono, alzano le mani, si lamentano con i dirigenti, telefonano a tutte le ore del giorno... È un po’ quello che succede a scuola: i genitori-tifosi non accettano che ci possa essere qualcuno più bravo del proprio figlio, non ne riconoscono i limiti e perciò diventano aggressivi con gli educatori, i mister, con gli arbitri, perfino con gli altri genitori. Ma, cosa ancor più grave, non si rendono conto che alzando il livello della tensione fanno un danno enorme ai ragazzi, che vorrebbero essere lì soltanto per divertirsi».

SILENZIO SUGLI SPALTI Così si torna al peccato originale, la mancanza di cultura sportiva nel nostro Paese. La Figc, come gli altri movimenti a rischio violenza, negli ultimi anni ha moltiplicato sforzi e investimenti per sensibilizzare all’importanza del tifo positivo, e ha stilato dei vademecum coi diritti-doveri di giovani atleti e genitori. Il problema non è soltanto italiano, perciò si guarda con curiosità alle soluzioni adottate all’estero. Come in Inghilterra, dove per arginare il fenomeno dei papà e delle mamme ultrà l’English Football Association ha introdotto sin dalla scorsa stagione i «Respect silent weekend». Tradotto, durante le partite giocate da ragazzi dai 10 ai 16 anni ai genitori presenti sulle tribune è vietato discutere, inveire per un’occasione da gol sprecata, discutere per una decisione arbitrale o protestare per una mossa dell’allenatore. Sono ammessi soltanto applausi e parole di incitamento. Chi non rispetta le regole, viene allontanato. Provocatoriamente, nelle serie inferiori si è arrivati a distribuire dei lecca lecca ai papà e alle mamme presenti a bordo campo, con il chiaro messaggio di tenere la bocca occupata mentre i loro figli si affrontano tra un dribbling e un cross.

GENITORI ALLO SPECCHIO Anche a casa nostra gli esperimenti si moltiplicano. A cominciare dalla micro realtà degli oratori. Nella parrocchia Madonna della Misericordia di Bresso, alle porte di Milano, una sessantina di volontari con la onlus Comunità Nuova portano avanti il progetto «Io tifo positivo - Genitori a scuola di sport». «Un format che sta avendo successo e che stiamo portando anche al di fuori della polisportiva Bresso 4», riferisce il coordinatore Antonio Zambelli. «Sabato scorso siamo stati a Como, dove abbiamo incontrato una ventina di genitori e i rispettivi bimbi. Ai più esasperati cerchiamo di far capire che i figli non hanno bisogno di genitori-commissari tecnici, ma di motivatori che conoscano il valore della pazienza e che sappiano aspettare il talento, in qualsiasi forma si manifesti». Per cambiare atteggiamento, i genitori devono prima passare dall’altra parte della barricata.

«Uno dei momenti chiave della “terapia di gruppo” è quando scendono in campo loro, mentre i figli li osservano. Se riescono a recuperare lo spirito originario del gioco, allora vuol dire che siamo sulla buona strada...». Insomma, cari mamme e papà, gettate la maschera da ultrà: i bambini vi guardano. E vi copiano.

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