Del Potro, il campione gentiluomo con il talento unico di farsi voler bene

L'argentino in lacrime per l'omaggio dei tifosi: oltre un minuto di applausi

Del Potro, il campione gentiluomo con il talento unico di farsi voler bene

Che cos'è un campione dello sport? E soprattutto: perché diventa un nostro eroe? Forse perché è la proiezioni del nostro Io, di quello che vorremmo essere ma che non siamo diventati. Al campione affidiamo le nostre aspirazioni, lui deve giocare per noi, per vincere. Di solito è così, eppure ci sono storie straordinarie che cambiano i parametri. Che scrivono un'altra realtà. Ad esempio: tifare per Juan Martin Del Potro non è essere da una parte o dall'altra della barricata del tennis, non è essere pro Federer o pro Nadal, non è neppure Inter contro Milan, Moser contro Saronni. Non è, insomma, un argomento da Bar Sport. È qualcosa di più: è l'amore per il lieto fine, la speranza riposta nelle brave persone.

Questo è Juan Martin, che nel circuito ha solo amici e sugli spalti solo tifosi. Disse di lui un giornalista: «Ha un talento innato nel farsi vole bene, anche se è uno che in campo picchia duro». Già perché il suo talento è anche giocare a tennis e il mondo lo ha capito, lo ha applaudito, quando nel 2010 agli UsOpen ha battuto Federer in finale. Con lo stesso Federer che in fondo era quasi felice di aver perso dall'amico Juan Martin. Da lì l'ascesa fino a numero 4 del mondo, ma poi la discesa ad inizio 2014 per un infortunio al polso che il gigante buono di Tandil, Argentina, ha vissuto con discrezione. Tre operazioni, anzi quattro perché a un certo punto si fa male anche quello sinistro, due tentativi inutili di risalita, la resa: «Non credo che tornerò a giocare. Pazienza, mi farò un'altra vita».

Nel circuito lo rimpiangevano, per quel suo modo educato di affrontare le cose, anche gli avversari. Fino a quando, all'inizio di quest'anno, Juan Martin ci ha riprovato, partendo dal posto 1045 della classifica: gli organizzatori hanno fatto a gara a invitarlo, lui ha riposto ricominciando a vincere partite con quel suo sorriso gentile, lo stesso con cui ha festeggiato la medaglia d'argento alle Olimpiadi di Rio. Fino all'altra notte, nei quarti di New York contro Wawrinka, quando a partita ormai persa - due set a uno sotto e lo svizzero che serve sul 5-2 nel quarto - lo stadio si è alzato in piedi ad osannarlo: «Delpo, Delpo» gridavano, sempre più forte. Lui a quel punto ha pianto, e non riusciva a smettere: un minuto e più, con Wawrinka e l'arbitro fermi per rispetto del momento.

«Quello che è successo è meraviglioso, il risultato a questo punto non conta più» ha detto alla fine Juan Martin, dimostrando così cosa vuol dire essere un campione. Ovvero il bravo ragazzo che è in noi. E che è - appunto - lui.

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