Da giornalisti sportivi abbiamo sempre capito l'invidia degli altri, di quelli che arricciano il naso se li chiami colleghi: nello sport succedono cose che voi umani. Questa ultima domenica è stata davvero speciale: un ragazzo dell'Equador che vince il Giro, viva Carapaz; Petrucci che sistema i fenomeni del MotoGp, viva la sua storia; l'incredibile ciccione messicano Ruiz che abbatte Apollo Joshua nella versione 2019 di Rocky, viva la povertà che ti rende forte; per finire Gianmarco Pozzecco che sembra Redford nella Stangata e si mangia l'alterigia dell'Armani nel basket: viva il mattocchio che ci ha fatto godere ed arrabbiare nella sua vita da esploratore oltre le tinture dei capelli.
Da giocatore, il Pozzecco, figlio del placido due metri Franco, petrarchino e goriziano, grande tiratore, allenatore che al figlio «meno dotato della nidiata» consigliò di darsi al calcio, scatenando la follia creativa di questo nano da combattimento che segnava anche quaranta punti, che da giocatore ha vinto tanto, scudetto a Varese, argento olimpico ad Atene, e da allenatore, ha sconvolto la Bibbia del basket facendo il Davide per abbattere i Golia del basket Armani.
Quando giocava lo amavi e lo odiavi. Grandi allenatori lo hanno messo fuori prima del raccolto: Tanjevic con la Nazionale che vinse l'Europeo a Parigi, Repesa che si prese lo scudetto con la Fortitudo. Lui ha reagito sempre come quando gli dicevano che non poteva giocare in C, che era bravo in B, ma si sarebbe fermato presto, fino a quando Cappellari lo sdoganò da Livorno per dargli in mano la Varese della stella. Adesso rivive una vita da torero dietro il muro di chi gli diceva che come allenatore era solo chiacchiere, fumo. In effetti dopo l'esordio nella famiglia del sorriso a Capo d'Orlando si era fatto notare per le camicie strappate a Varese contro gli arbitri, ma poi ha trovato la scuola che gli serviva a Zagabria come assistente nel Cedevita del compagno Mrsic che era con lui nella magica Varese della stella, ma anche quella esperienza non gli aveva dato felicità quando lo chiamò la sua cara Fortitudo Bologna. Sembrava bruciato questo goriziano classe 1972 amato a Udine e persino a Trieste, cosa che sembra impossibile conoscendo l'ottusità dei campanili, e allora aveva scelto il ritiro a Formentera dove ha trovato la pace, forse l'amore perché ha detto che si sposerà. Ci stavamo dimenticando di lui quando le dimissioni di Esposito da Sassari, destabilizzata dall'infortunio di Bamforth, hanno convinto il geniale Sardara a dargli l'ultima carta del mazzo. Bella coppa Italia, flop in campionato a Venezia il 10 marzo. Sembrava di rivedere lo stesso film. Da quel giorno solo vittorie: 22, l'eurocoppa FIBA, e adesso la finale scudetto dopo aver eliminato i favoriti dell'Armani Milano lasciandoli a zero nelle semifinali. Capolavoro alla sua maniera, anche se chi non gli crederà mai dice che il suo è soltanto fumo perché sembra che reciti invece di dirigere davvero.
Sarà anche così, ma ridare la gioia di vivere ad una squadra, fare questo capolavoro, 3-0 a Brindisi nei quarti, filotto contro Milano, la superfavorita, rimasta nuda nell'isola, ci sembra davvero un'impresa e vedremo se nella finale scudetto, contro il suo padre putativo Sacchetti che allena Cremona, o la Reyer che già sorprese il basket vincendo il titolo contro Trento, in un altro degli anni dispari dei billionaire di Armani, riuscirà nell'impresa. Di sicuro ha smosso le acque stagnanti di un mondo che lo ama moltissimo, ma ha sempre pensato ai suoi capelli colorati piuttosto che al suo genio sul campo e, adesso, in panchina.
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