Il ragazzo che vola nato per stupire continua a sprintare

Il ragazzo che vola nato per stupire continua a sprintare

Pietro Mennea i suoi sessant’anni, li compie proprio oggi, la sua storia, quella luce che ci ha accompagnato lungo una strada sportiva che rimpiangeremo sempre perché raccontando le imprese di Fratello Pietro (il nostro Mennea appunto) e di sorella Sara (la saltatrice in alto Simeoni), ascoltando le voci del grande bosco che ispirava musiche celestiali, abbiamo partecipato a qualcosa che resterà nella storia dello sport mondiale, non soltanto italiano, perché in quei giorni tutto sembrava fiorire nella scuola italiana dove il genio al servizio dei grandi si chiamava Carlo Vittori, il professore di Ascoli Piceno che sapeva domare gli uomini con i muscoli di seta, sfatando luoghi comuni, imponendo sofferenza, ma indicando una strada fino a quando la gelosia non fece crollare la scuola dove l’unica lingua conosciuta era quella del lavoro.
Ieri, guardando gli europei di atletica ad Helsinki, abbiamo obbligato la nostra mente a cercare felicità altrove. Sulla pista dominata dalla torre dei record, dal fantasma di Paavo Nurmi, l’uomo che aveva fatto della resistenza la sua religione, abbiamo intravisto la camera d’appello dove venivano chiamati i velocisti per la semifinale. Chiudere gli occhi e tornare davvero indietro. Europei del 1971, quelli del dominio Ddr, delle grandi sfide nel mezzofondo dove il battuto era l’inglese Bedford, vittima del sisu finlandese. In quella camera d’appello per la finale di 200 metri c’era anche Pietro Paolo Mennea, nato a Barletta il 28 giugno del 1952, ventenne che avevamo conosciuto sulla pista di Lugano 4 anni prima, che avevamo visto sbocciare agli europei juniores nello stadio parigino di Colombes due anni dopo.
Era Pietro l’uomo di tutte le rivoluzioni che avevamo sognato, lui e la Simeoni, si capisce. I suoi passi ce li ricordiamo ancora perché per stargli dietro dovevi davvero correre tanto: era nella camera d’appello per il suo primo bronzo olimpico sui 200 a Monaco, nelle Olimpiadi del 1972 dove lo sport perse la sua innocenza. Poi all’europeo vinto a Roma, persino nel palazzone milanese di San Siro caduto sotto la neve per il titolo continentale sui 200 nel 1978, apertura magica per la stagione dei due ori europei a Praga sui 100 e 200 metri, nel gelo, la strada che portava alle corse della gloria per sempre. Era il 1979, universiadi di Città del Messico, nel ricordo dell’Olimpiade in altura che aveva sconvolto lo sport e gli Stati Uniti con Smith e Carlos sul podio dei 200 dei record con un guanto nero e con il pugno alzato contro i razzismi che ancora perseguitano questa umanità.
Pietro il missionario che passava ore sulla pista della scuola di Formia allenandosi sempre, anche quando gli altri facevano baldoria. Lui che aveva cominciato sfidando le auto veloci per guadagnarsi 500 lire da ragazzino. Era il 1979 delle grandi scoperte perché il ragazzo che volava voleva anche altro: una laurea? Accidenti ne ha prese quattro, l’ultima in lettere, la prima in scienze politiche. Ma sulla pista messicana non era ancora l’onorevole dottor Mennea, era il ragazzo dei sogni: primato del mondo nei 200, 19"72, un sogno, una favola durata anni. Poi l’oro sui 200 ai Giochi di Mosca 1980, un bronzo europeo, proprio ad Helsinki nel 1982, cantando come un grande cigno ancora per le due staffette di Los Angeles 1984 e infine a Seul ’88 quando sapeva di non poter fare più della batteria nei 200 metri, la sua corsa, la sua storia.
Nato per combattere stupire, per lottare, sempre, soprattutto quando gli dicevano che contro i mostri avrebbe dovuto arrendersi.

Ma il senso doloroso della sfide per l’esistenza gli hanno dato una carica che ancora oggi lo porta in trincea. Di sicuro uno come lui ha scritto la storia ed è stata una favola bellissima che non finirà mai smentendo chi diffidava dello stortignaccolo del Sud diventato di ferro per volontà grazie ad un grande maestro.

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