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La strage dei ragazzini. Morire a 15 anni per la propria passione

Dean, cugino di Maverick, cade e viene travolto: niente da fare. È il terzo giovane in quattro mesi

La strage dei ragazzini. Morire a 15 anni per la propria passione

Ci hanno raccontato Plauto e tanti altri che muor giovane colui che al cielo è caro. Ma veder cadere centauribambini come fossero in guerra, e non è guerra solo una gara, non ci fa credere che questo sia il progetto. Ieri è toccato, sta diventando un conteggio come fosse una ineluttabilità, a Dean Berta Viñales, ragazzino spagnolo di 15 anni, dal cognome famoso perché lo porta anche Maverick, il cugino che corre in MotoGp sull'Aprilia. Berta era nato il 20 aprile 2006 a Palau Saverdera, comune autonomo della Catalogna con meno di 100 abitanti, ed era ancora un novello del mondiale che stava correndo: 11 gare soltanto. Stavolta si provava sul circuito di Jerez de la Frontera, Yamaha numero 25 (il vecchio numero del cugino) nella gara 1 della Supersport 300, anticamera della Superbike. Decimo giro, Dean Berta vola via dalla moto, gli altri arrivano: gli passano sopra.

La gara viene immediatamente fermata. Nel groviglio sono rimasti coinvolti altri tre piloti fra i 15 e i 17 anni. Ma le condizioni di Viñales sono apparse subito gravi: lesioni al torace e alla testa. Il pilota assistito dai medici in pista, ma c'è voluto poco per capire che se n'era andato. Era in un bel momento di forma, raccontano i suiveurs del moto mondiale: a Magny Cours aveva conquistato un secondo posto, sul circuito di Barcelona-Catalunya una sesta posizione. Aveva la faccia di un bambino, è stato ucciso come ormai, troppo spesso, capita nelle gare motociclistiche. Sei davanti, sei nel gruppo, cadi, gli altri non possono evitarti e addio. Quest'anno è il terzo centauro bambino che se ne va: quattro mesi fa, al Mugello, è capitato a Jason Dupasquier, 19 anni, centauro svizzero travolto da due piloti al termine delle qualifiche del Gran Premio d'Italia. Ammazzato da lesioni al torace e da lesioni cerebrali. Il 25 luglio, durante il Motorland Aragon, è toccato a Hugo Millian, pure lui spagnolo, 14 anni appena, caduto a 13 giri dalla fine ma pronto a cercar la salvezza, se non lo avesse investito il polacco Oleg Pawelec mentre si rialzava per fuggire dal mezzo della pista. Lo chiamavano Iceman per la freddezza in sella. Una freddezza che stava per salvarlo. La tragica lista di piloti caduti così ormai è disumanamente lunga: limitandosi al motociclismo moderno la si fa partire dal 1973, gran premio d'Italia a Monza, dove lasciano la vita, il loro mondo, Jarno Sarinen e Renzo Pasolini. Poi una serie di nomi famosi o meno, giovanissimi oppure più celebrati. Fa ancora male, dieci anni dopo, il ricordo di Marco Simoncelli, a terra svenuto, il casco volato via.

Si dirà che la vita e la morte sono leggi della vita, ed anche dello sport. Ma lo sport non vuol celebrare la morte. Oppure è vero che lo sport, nel giro di poche ore, ci invita a celebrare il primo gol di un 19enne rampollo (Maldini) di nobile casata calcistica e la morte di un centauro-bambino dal cognome e dal cugino famoso.

La morte non guarda mai il calendario.

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